azienda artigiana.jpg
L’indagine campionaria condotta da Bankitalia all’inizio dell’anno riguardo al sistema produttivo italiano ci dice che il nostro Paese si è allontanata dall’Europa per produttività e investimenti. Tanto per dirne una lo scorso anno si è dimezzata la crescita della dotazione di capitale fisso e ciò è avvenuto proprio quando per l’Italia emerge con forza sempre più crescente la necessità di aumentare in maniera decisa la propria produzione industriale. Minori capitali a disposizione vuol dire minori risorse da dedicare appunto agli investimenti, soprattutto in termini di innovazione, e di maggiori investimenti in questo senso c’è assoluta necessità se si vuol puntare ad accrescere la produttività del nostro sistema industriale per recuperare il terreno che in questi anni abbiamo perduto. Per la verità il gap sofferto dall’Italia in questo campo ha due origini: il primo è il deficit di domanda interna , per cui si produce meno perché da noi, e non da oggi, i consumi delle famiglie sono più deboli rispetto al resto dell’Europa che conta economicamente; ma produciamo meno anche perché le nostre imprese hanno poca convenienza ad investire di più in patria, pesando su di esse anche le cosiddette “diseconomie esterne”: modesto livello di infrastrutturazione materiale e immateriale, dai trasporti, alle scuole; l’eccessivo peso, anche economico, della burocrazia; il costo crescente dell’energia; il peso talvolta eccessivo della tassazione. C’è comunque da dire che questi handicap non hanno frenato del tutto la capacità di buona parte del nostro apparato produttivo di reagire, come dimostrano gli ottimi livelli raggiunti dalle nostre esportazioni (ad aprile 2008 +19,5% su base annua). Va inoltre considerato che il livello strutturalmente basso della domanda interna, che non favorisce l’ampliamento produttivo in Italia, funge allo stesso tempo da stimolo alla delocalizzazione delle nostre imprese verso i paesi emergenti, dove la domanda è invece in crescita. In questo senso vi sono anche altri vantaggi, e non solo quelli derivanti da un più basso costo della manodopera, ma anche i costi energetici minori che questi Paesi sono in grado di garantire e la possibilità di trovare il loco figure tecniche e professionali altamente specializzate che da noi non sono facilmente reperibili, pur essendo di assoluto rilievo nel funzionamento delle filiere produttive tipiche del “made in Italy”. Produttività non vuol dire, infatti, solo grandi imprese ed il fatto che in Italia sia stata calcolata, ad esempio, la mancanza di 71mila tra sarti, fabbri, falegnami, meccanici, addetti alla robotica ed altre figure ancora, spiega abbondantemente le difficoltà incontrate dal nostro artigianato che, non dobbiamo dimenticarlo, contribuisce nella misura del 12% alla formazione del pil nazionale. Ma per tornare ad investire di più in Italia, innovando e rischiando, necessitano politiche nuove che diano risposte concrete per la soluzione dei problemi che abbiamo testé indicato. Ci sia, dunque, di conforto il fatto che la Regione Umbria, raccogliendo un po’ anche le continue sollecitazioni al riguardo formulate dal Prc, si è finalmente posta il problema di ammodernare in questo senso la sua legislazione in materia di attività produttive. A questa necessità risponde la legge quadro, di iniziativa della Giunta regionale (che l’ha anche preadottata), di riordino dei principi di politica industriale dell’Umbria che si propone di stabilire nuove norme proprio in materia di sviluppo, innovazione e competitività del nostro sistema produttivo. Una nuova politica industriale per aggredire i nostri punti di difficoltà e criticità che passa anche attraverso il riordino delle Agenzie regionali in materia, così di renderle più recettive alle nuove esigenze; una nuova legge per le politiche industriali che fissi riferimenti di principio e normativi lasciando alla programmazione (piano triennale e piano annuale) la individuazione delle scelte concrete, avendo considerazione del fatto che in Umbria è ancora più largo il deficit di innovazione del sistema produttivo anche perché la nostra regione deve fare i conti, più di altre, con due fattori che non possiamo ignorare: da un lato il ridotto dimensionamento delle nostre imprese (per la stragrande maggioranza si tratta di piccole ed anche piccolissime aziende) ed al contempo una diffusa presenza di multinazionali. Basti pensare che da quest’ultimo punto di vista la provincia di Terni è seconda in Italia, dopo quella di Milano. Alta formazione della nostra manodopera, dunque, incentivazione agli investimenti privati nella ricerca (per la quale l’Umbria è ultima in Italia) e semplificazione amministrativa sono punti irrinunciabili ed è di buon auspicio, quindi, che anche l’assessore Giovanetti abbia posto la centralità delle politiche della innovazione e della ricerca (collegamento diretto impresa-università-centri di ricerca) e quella del rafforzamento delle microimprese al centro della proposta che porta la sua firma. Partecipando con entusiasmo al dibattito che comincia a svilupparsi su questo tema importantissimo per il futuro della nostra società regionale (il passaggio in aula sarà dunque importante) e giudicando positivo il fatto che finalmente si va a delineare una normativa per le “politiche industriali” che può aiutarci a superare il “ciclo del mattone” che ha sin qui fortemente caratterizzato l’economia umbra, il Prc non ha rinunciato ad indicare, in sede di riunione di maggioranza, per bocca del capogruppo regionale Stefano Vinti, quelle che considera “carenze” contenute nella bozza che gli era stata consegnata, al superamento delle quali si propone di contribuire: 1) la mancanza di una chiara indicazione sul respiro della programmazione industriale a livello di “Italia di mezzo” (Umbria-Toscana-Marche-Lazio-Abruzzo); 2) i poli di eccellenza debbono essere normati e riconosciuti e non semplicemente indicati, come del resto lo stesso Prc aveva già indicato nella sua proposta di legge in materia che non è stata ancora discussa; 3) le imprese multinazionali, oltre che “valorizzate, come si indica, debbono essere ancorate ad una nuova “responsabilità sociale” nei confronti del territorio in cui operano; 4) la programmazione (art. 7, pag. 10) non va affidata alle associazioni di categoria, ma deve vedere le aziende come dirette protagoniste; 5) sui centri di ricerca va giustamente valorizzata l’Università di Perugia, senza però affidargli un ruolo di monopolio, attenti, perciò, a cogliere anche le tante opportunità che possono offrirci i centri di ricerca che fanno riferimento ad altri atenei. L’indagine campionaria condotta da Bankitalia all’inizio dell’anno riguardo al sistema produttivo italiano ci dice che il nostro Paese si è allontanata dall’Europa per produttività e investimenti. Tanto per dirne una lo scorso anno si è dimezzata la crescita della dotazione di capitale fisso e ciò è avvenuto proprio quando per l’Italia emerge con forza sempre più crescente la necessità di aumentare in maniera decisa la propria produzione industriale. Minori capitali a disposizione vuol dire minori risorse da dedicare appunto agli investimenti, soprattutto in termini di innovazione, e di maggiori investimenti in questo senso c’è assoluta necessità se si vuol puntare ad accrescere la produttività del nostro sistema industriale per recuperare il terreno che in questi anni abbiamo perduto. Per la verità il gap sofferto dall’Italia in questo campo ha due origini: il primo è il deficit di domanda interna , per cui si produce meno perché da noi, e non da oggi, i consumi delle famiglie sono più deboli rispetto al resto dell’Europa che conta economicamente; ma produciamo meno anche perché le nostre imprese hanno poca convenienza ad investire di più in patria, pesando su di esse anche le cosiddette “diseconomie esterne”: modesto livello di infrastrutturazione materiale e immateriale, dai trasporti, alle scuole; l’eccessivo peso, anche economico, della burocrazia; il costo crescente dell’energia; il peso talvolta eccessivo della tassazione. C’è comunque da dire che questi handicap non hanno frenato del tutto la capacità di buona parte del nostro apparato produttivo di reagire, come dimostrano gli ottimi livelli raggiunti dalle nostre esportazioni (ad aprile 2008 +19,5% su base annua). Va inoltre considerato che il livello strutturalmente basso della domanda interna, che non favorisce l’ampliamento produttivo in Italia, funge allo stesso tempo da stimolo alla delocalizzazione delle nostre imprese verso i paesi emergenti, dove la domanda è invece in crescita. In questo senso vi sono anche altri vantaggi, e non solo quelli derivanti da un più basso costo della manodopera, ma anche i costi energetici minori che questi Paesi sono in grado di garantire e la possibilità di trovare il loco figure tecniche e professionali altamente specializzate che da noi non sono facilmente reperibili, pur essendo di assoluto rilievo nel funzionamento delle filiere produttive tipiche del “made in Italy”. Produttività non vuol dire, infatti, solo grandi imprese ed il fatto che in Italia sia stata calcolata, ad esempio, la mancanza di 71mila tra sarti, fabbri, falegnami, meccanici, addetti alla robotica ed altre figure ancora, spiega abbondantemente le difficoltà incontrate dal nostro artigianato che, non dobbiamo dimenticarlo, contribuisce nella misura del 12% alla formazione del pil nazionale. Ma per tornare ad investire di più in Italia, innovando e rischiando, necessitano politiche nuove che diano risposte concrete per la soluzione dei problemi che abbiamo testé indicato. Ci sia, dunque, di conforto il fatto che la Regione Umbria, raccogliendo un po’ anche le continue sollecitazioni al riguardo formulate dal Prc, si è finalmente posta il problema di ammodernare in questo senso la sua legislazione in materia di attività produttive. A questa necessità risponde la legge quadro, di iniziativa della Giunta regionale (che l’ha anche preadottata), di riordino dei principi di politica industriale dell’Umbria che si propone di stabilire nuove norme proprio in materia di sviluppo, innovazione e competitività del nostro sistema produttivo. Una nuova politica industriale per aggredire i nostri punti di difficoltà e criticità che passa anche attraverso il riordino delle Agenzie regionali in materia, così di renderle più recettive alle nuove esigenze; una nuova legge per le politiche industriali che fissi riferimenti di principio e normativi lasciando alla programmazione (piano triennale e piano annuale) la individuazione delle scelte concrete, avendo considerazione del fatto che in Umbria è ancora più largo il deficit di innovazione del sistema produttivo anche perché la nostra regione deve fare i conti, più di altre, con due fattori che non possiamo ignorare: da un lato il ridotto dimensionamento delle nostre imprese (per la stragrande maggioranza si tratta di piccole ed anche piccolissime aziende) ed al contempo una diffusa presenza di multinazionali. Basti pensare che da quest’ultimo punto di vista la provincia di Terni è seconda in Italia, dopo quella di Milano. Alta formazione della nostra manodopera, dunque, incentivazione agli investimenti privati nella ricerca (per la quale l’Umbria è ultima in Italia) e semplificazione amministrativa sono punti irrinunciabili ed è di buon auspicio, quindi, che anche l’assessore Giovanetti abbia posto la centralità delle politiche della innovazione e della ricerca (collegamento diretto impresa-università-centri di ricerca) e quella del rafforzamento delle microimprese al centro della proposta che porta la sua firma. Partecipando con entusiasmo al dibattito che comincia a svilupparsi su questo tema importantissimo per il futuro della nostra società regionale (il passaggio in aula sarà dunque importante) e giudicando positivo il fatto che finalmente si va a delineare una normativa per le “politiche industriali” che può aiutarci a superare il “ciclo del mattone” che ha sin qui fortemente caratterizzato l’economia umbra, il Prc non ha rinunciato ad indicare, in sede di riunione di maggioranza, per bocca del capogruppo regionale Stefano Vinti, quelle che considera “carenze” contenute nella bozza che gli era stata consegnata, al superamento delle quali si propone di contribuire: 1) la mancanza di una chiara indicazione sul respiro della programmazione industriale a livello di “Italia di mezzo” (Umbria-Toscana-Marche-Lazio-Abruzzo); 2) i poli di eccellenza debbono essere normati e riconosciuti e non semplicemente indicati, come del resto lo stesso Prc aveva già indicato nella sua proposta di legge in materia che non è stata ancora discussa; 3) le imprese multinazionali, oltre che “valorizzate, come si indica, debbono essere ancorate ad una nuova “responsabilità sociale” nei confronti del territorio in cui operano; 4) la programmazione (art. 7, pag. 10) non va affidata alle associazioni di categoria, ma deve vedere le aziende come dirette protagoniste; 5) sui centri di ricerca va giustamente valorizzata l’Università di Perugia, senza però affidargli un ruolo di monopolio, attenti, perciò, a cogliere anche le tante opportunità che possono offrirci i centri di ricerca che fanno riferimento ad altri atenei. Condividi