di Marco Jacoviello L’incontro con Marcello Simonetti è sbrigativo e illuminante insieme, come la pioggia indorata da un fulmine che elettrizza l’aria rendendola amara. Non la sua voce, ma le mani, mani prodigiose, hanno la capacità di accogliere chi le vede rigirarsi su se stesse a plasmare l’aria riempiendo di segni e di volumi il vuoto apparente dello sguardo. Mani più simili agli occhi, che ritmano il tempo istante per istante e sembrano mettere in secondo piano la forte prensilità della loro stretta. Mani che rivelano la dimensione più intima e sacra dello scultore: quella legata alla morbidezza di chi non osa toccare se non per sfiorare ed accarezzare insieme, per insinuarsi candidamente tra pieghe di carne e riccioli scomposti. Mani che parlano, vedono e sentono, che avvertono pudiche l’essere nell’impalpabile istante della vibrazione, come nome che evoca ed anticipa la forma. “Figurine leggere, così”. E’ questa la poetica dell’artista: la leggerezza. Nelle molte icone bronzee estratte da un unico modellato femminile che sembra smaterializzarsi nelle nuove formulazioni istintive ed arcaiche, estranee totalmente al ripiego accademico, distillate da un gioco di mani che decanta argilla e scagliola, bronzo, plastica e marmo. Mani che dell’essere rivelano un prodigio: l’anima. L’anima, appunto, chiama la nudità ad essere null’altro che il proprio abito, del corpo svelando la verginità. La fidanzata di marmo, la scultura esposta a Gualdo Tadino, è così legata all’Anatomia di un’anima perché in entrambe l’apparenza fisica, mero fenomeno transitorio, definisce i tratti di quella permanenza invisibile che l’anima comporta. Non la finitezza della forma, si badi bene, perché, come sostiene Eraclito, i confini dell’anima sono irraggiungibili. Ma l’immaterialità della materia. Per questo motivo gli eleganti panneggi de Il grande silenzio, figura nobile, composta, virile e spirituale ,creano una leggerezza flautata che trasuda emozione e santità , come le volute aeree dell’abito de La grande Virgo che rinunziano del tutto al contenuto simbolico per confessare, invece, il candore dell’innocenza, misterioso segno mistico, sentiero ininterrotto che unisce terra, cielo ed eternità…. A poco importa la presa in prestito dell’icona del Barocci: l’arte di Simone’- in questo modo suole chiamarsi , come Mozart che preferiva Amadè all’altisonante Wolfgang- la trascina nei bagliori del Novecento artistico, e miglior sorte non avrebbe potuto immaginare, visto che a farlo è un allievo del futurista umbro Dottori. L’arte di Simonetti è impressiva.. Debole, ma affettiva, la parola che l’accompagna. Condividi