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Va bandita «qualunque spocchia ideologica», rifiutata l’idea che sia «necessario rifugiarsi nelle proprie nicchie identitarie» ed evitata quella secondo la quale «la fedeltà alla tradizione è la chiave per risorgere». Per Nichi Vendola si deve partire da qui per far «rimettere radici» a una sinistra «spiantata». Il governatore della Puglia si candida a segretario di Rifondazione comunista con una mozione che propone l’avvio di un processo costituente perché, dice definendo questo «il vero punto del dissidio» rispetto alla mozione Ferrero-Grassi, «siamo una minoranza ma non vogliamo essere segnati da una cultura minoritaria». La fine delle votazioni nei comitati politici federali mostra un partito spaccato a metà. Come premessa al congresso vero e proprio non è delle migliori… «Fa parte del gioco democratico. Quello che sarebbe grave è la cristallizzazione di questa divisione, il permanere di una frattura. La diversità delle opinioni dovrebbe essere una ricchezza e dovrebbe avere un carattere propedeutico alle scelte». Perché dice questo? «Perché io non ho nessuna intenzione di sciogliere il partito che ho contribuito a costruire, ma mi piacerebbe molto sciogliere le dinamiche di corrente che talvolta corrodono elementi fondativi, di solidarietà, dentro una comunità politica». Una risposta alle accuse che le hanno rivolto? «Un appello a rispettare le storie personali e a evitare parole usate come oggetti contundenti». Lei dice che non vuole sciogliere il partito, però propone una costituente della sinistra: come fanno a tenersi le due cose? «Proponiamo un processo costituente. Sono due parole, entrambe importanti. Processo significa un cammino, la sperimentazione di luoghi nuovi nei quali restituire senso al fare politica. E costituente perché abbiamo di fronte una radicale desertificazione sociale e culturale della sinistra. Quella di oggi è una sinistra spiantata dalla terra del lavoro, dalle comunità urbane e anche dal senso comune. Si tratta appunto di rimettere radici nella società. Questo è il processo costituente. E sarebbe un po’ strano, per uno come me che nei 37 anni di militanza comunista ha fatto della critica alla forma partito uno dei fuochi della sua passione, costruire questo esclusivamente dentro il recinto della forma partito». Come fa la sinistra a “rimettere radici”? «Rifiutando l’idea che sia necessario rifugiarsi nelle proprie nicchie identitarie, dismettendo qualunque spocchia ideologica e evitando di immaginare che la fedeltà alla tradizione sia la chiave per risorgere. Viceversa, occorre un aggiornamento radicale dell’analisi della nostra società». Che ne pensa della proposta di Diliberto di unire i comunisti, cioè Pdci e Prc? «Che è esattamente il contrario di ciò che necessita. Quella è la scorciatoia del feticismo dei simboli, del tradizionalismo identitario. Io penso a un partito che abbia due obiettivi: rimettere in campo se stesso come un cantiere dell’innovazione e sentire preminente la necessità di contribuire a ricostruire il campo largo della sinistra». Innovazione fino all’abbandono delle famiglie politiche di appartenenza? «Non si tratta di fare un’operazione liquidazionista, anzi. Ma non basta neanche contrapporre un richiamo retorico, l’identità come un bene museale, il partito come trincea e riparo. Serve immaginare il partito come un corpo vivente e vivere gli elementi tipici delle culture politiche non come cimeli». Fava si è detto pronto a raccogliere la provocazione intellettuale per la quale comunismo e socialdemocrazia sono tradizioni politiche concluse: lei che dice? «Mi pare un congedo frettoloso da vicende che non meritano veloci cerimonie di addio. Personalmente penso che la categoria del comunismo abbia oggi un potenziale largamente inesplorato. A condizione, appunto, di essere agìto non come una risposta precotta, ma come una ricerca comune e una domanda radicale sulla espropriazione di senso anche della vita, in questa fase storica». Dopo che D’Alema si è espresso in suo favore e Diliberto per Ferrero, lo stesso Ferrero ha invitato tutti a rispettare il dibattito interno senza interferire. «Rifondazione comunista dovrebbe essere considerata un bene comune del popolo della sinistra e quindi dovrebbe essere interesse di tutti lavorare per un congresso aperto, che non ruoti solo attorno al nostro ombelico ma che coinvolga nella discussione una platea molto ampia». Rifondazione come “bene comune”, dice, eppure nei siti web delle diverse mozioni inizia a spuntare la parola scissione. «Se ne parla a sproposito, e comunque penso che la scissione peggiore sia quella dalla realtà». Che vuole dire? «Immaginare che un partito debba essere un piccolo gruppo è una scissione dalle necessità sociali. Noi abbiamo bisogno di un grande partito, di un Prc che abbia come obiettivo la ricostruzione di una sinistra di popolo. Questo è il punto vero del dissidio, siamo una minoranza ma non vogliamo essere segnati da una cultura minoritaria». Condividi