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Non si può dire certo che si siano precipitati in molti a leggere le mozioni per il congresso di Rifondazione Comunista che si terrà a luglio. Forse il fatto che sarà un congresso, e drammatico, a deciderne a maggioranza le fa considerare più pretesti che testi. Ma a torto. Sono la prima riflessione, bruciante, su se stessa della sinistra che è stata esclusa dalla rappresentanza politica e della quale Rc è stata per diciassette anni la parte maggiore e determinante. Il congresso dovrà decidere - si è detto e scritto - se Rc si dovrà confermare come partito o mettersi in discussione in una costituente con le altre parti della sinistra sconfitta che ne sentano il bisogno. In verità si è già deciso: sarà il partito stesso a definire la sua sorte, il che ha una sua logica. Tutti sappiamo però che cosa è il congresso di un partito e quali altri meccanismi, non inerenti alle mozioni, prepotentemente vi giochino, quali che siano in partenza le intenzioni delle parti in causa. D’altra parte, non conosciamo altre forme del far politica che non ne ripetano, e non sempre in meglio, le liturgie: femminismi, ambientalismi, movimenti non sono riusciti a risolvere il dualismo fra pluralità e unità, e a non frammentarsi, con ferite e strida. Nessuno sembra capace fino ad ora di evitare lo scoglio tra il fare ciascuno gruppo a sé e per sé e l’unificazione più o meno forzosa, più o meno flessibile, della abominata «forma partito del Novecento». I convinti che la forma segue, che è «quel che si fa» a decidere «chi e come si è», non piacciono a nessuno - la sottoscritta ne sa qualcosa. Amen. Tornando alle mozioni, leggerle non farebbe male. Scritte a caldo, sotto la batosta elettorale - che resta ancora, ahimè, una brutale sbattuta di muso con il mondo che ci sta attorno - esse riflettono questioni che nessuno, sinistra o centro che sia, può ragionevolmente scansare. Non sono documenti burocratici, se mai in alcuni punti ripetitivi, qualche volta fin contraddittori e convulsi. Sono cinque. Dei quali uno, la mozione di metodo a firma Franco Russo è stata, a quanto pare, scartata subito: proponeva di darsi sedi di discussione più ampia di un congresso, di non concludere questa specie di istruttoria sulla perdita di consenso subita con la nomina di un gruppo dirigente, e soltanto dopo passare al congresso vero e proprio di una forza politica nuova, o rinnovata, o semplicemente confermata. Degli altri quattro, due - uno firmato dal gruppo che regge «L’Ernesto» dopo la scissione con «Essere Comunisti» (fra di essi Fosco Giannini e Andrea Catone) e l’altro sostenuto da componenti dei comitati politici di diverse federazioni - sembrano convergere sulla tesi che Rifondazione comunista deve tornare alle origini, cioè essere un partito comunista integro, assumere «luci ed ombre» del passato, operare per una rottura della linea di «apertura» uscita dal Congresso di Venezia per un sindacato che si separi da una Cgil ormai «cislizzata» e, pur adoperandosi per una unità delle sinistre d’opposizione, non confondersi con essa. Sola apertura è, coerentemente, verso il Partito dei comunisti italiani. Queste mozioni sono in netta discontinuità con il passato recente di Rc, per intenderci con Fausto Bertinotti, e pur apprezzando questo o quello dei movimenti, non intendono identificarsi con essi. Si tratta, se non sono troppo sbrigativa, di andare a un aggiornamento del Pci o meglio di un partito leninista. Anche l’analisi della fase è, salvo gli aggiornamenti, in continuità con la tradizione. Ed è al suo essersi appannata che i firmatari attribuiscono la sconfitta elettorale: Rifondazione comunista ha deluso coloro che aveva raccolto in nome di una storia e del suo simbolo. Al centro della discussione sono, mi pare, le mozioni 1 e 2. La mozione 1 è presentata in stretto ordine alfabetico da Paolo Ferrero e molti del gruppo che era stato all’opposizione interna di Rc, come, fra gli altri, Claudio Grassi, Alberto Burgio, Nicola Nicolosi e ora anche Giovanni Russo Spena (mi scusino coloro che non nomino, è una nota personale e rilevo soprattutto coloro che conosco). Anche la mozione 1 insiste sugli errori di Rifondazione compiuti dal gruppo dirigente - errori dei quali tutti i firmatari si sentono corresponsabili, non è una mozione ingenerosa né vendicativa. Fra gli errori risaltano la non applicazione delle decisioni giuste del Congresso di Carrara, cui del resto tutti rendono omaggio, e quelle rivelatesi errate del Congresso di Venezia. Centrale fra di essi la sottovalutazione della contraddizione principale, quella fra «capitale e lavoro». Rifondazione si era presentata e affermata come il partito dei «senza mezzi di produzione», del proletariato nel senso moderno della parola, pensionati e precari, dei quali abbozza un’analisi. Traspaiono nelle pagine, secche e precise, la durezza dell’esperienza fatta da Ferrero come ministro nel governo Prodi - fermo nelle sue priorità ma leale nella sua condotta che ben poco ha potuto spuntare perfino di quel che pareva ottenuto nel programma dell’Unione - e la limpidezza culturale di un Alberto Burgio, Marx restando il suo riferimento e quella fra capitale e lavoro la contraddizione principale. Ne viene l’autoaccusa di tutti i firmatari di aver troppo contato sul «politico» rispetto al «sociale» e l’esigenza di tornare a lavorare prioritariamente su questo - senza però alcuna semplificazione del quadro. Quel che differenzia questa mozione dalle due ultime è che non si tratta di una pura e semplice riproposizione della tradizione, ma dell’impegno di afferrare la composita realtà del presente in chiave marxiana, e dalla parte dei lavoratori per primi. Essa non persegue alcuna rottura del sindacato, di cui critica duramente l’attuale orientamento, né del partito stesso di Rc, che auspica resti unito anche nella diversità, e per quanto riguarda la parte dei delegati che raccoglierà attorno a sé, a questo si impegna. La mozione 2 infine, la più estesa, porta come prima firma Nichi Vendola e raccogliendo poi in stretto ordine alfabetico gran parte del precedente Fausto Bertinotti, Alfonso Gianni, Rina Gagliardi, Patrizia Sentinelli, altri. Questa mozione sembra scritta da una sola mano, quella di Vendola, con il suo andamento appassionato. E’, mi sembra, la più articolata nell’analisi e nel rilievo dei mutamenti dell’assetto capitalistico, ma ne deriva che è venuto a fine la centralità del conflitto capitale-lavoro. E’ il capitalismo stesso che farebbe emergere nuove soggettività rivoluzionarie, fra le quali preminente quella femminile, cui dedica non molto spazio ma righe più acute delle altre mozioni, e dell’ambiente come sfruttamento oggi diventato mortale delle risorse naturali. Il «passo» specifico di questa mozione è che non somma una questione con l’altra né le gerarchizza, implicando - credo - che esse attengono a piani diversi e non giustapponibili. Questo ne fa anche la mozione più aperta alle altre sinistre, e la più ostile a un semplice riflusso identitario, del quale mette in causa la stessa effettiva corposità. Non è del tutto chiaro la «forma partito» che ne deriverebbe, non limitata al rifiuto del «centralismo democratico», la pluralità delle idee essendo affidata soprattutto alla comunicazione, ma l’analisi che viene presentata non consentirebbe facili ricomposizioni verticali. Uno stesso tema è, d’altronde, ripreso sotto diverse angolazioni e non senza inciampare in qualche scoglio. Delle mozioni è la più vivace e problematica. Non esiterei a proporre al manifesto, che non è un partito, di aprire a una non generica discussione i punti che Vendola indica al capitolo III (non che non la meriterebbe la tesi principale delle mozioni «identitarie»): è il problema, dal giornale sempre riproposto e mai affrontato, della parola «comunista». Insomma, dalle mozioni escono materiali di una elaborazione sui quali una Rc solida e meno indolenzita potrebbe anche vivere, dandosi tempo, e allargarsi solidalmente senza traumi catastrofici almeno nei limiti delle mozioni 1 e 2. Lo stile è, del resto, molto corretto. Ma in un corpo così duramente battuto le emozioni, le ferite inferte e ricevute, contano. Questo è un aspetto che si risolve o implode solo fra i protagonisti. Due ultime osservazioni. Non c’è un documento né una traccia di elaborazione da parte delle donne di Rifondazione - intendo le femministe - che pure avevano avuto nel loro Forum una esperienza di lavoro comune più ricca che altrove. Alcune hanno firmato una mozione, alcune un’altra. Questo è davvero un limite, giacché una riflessione dalla loro ottica, e non solo su se stesse e non da un orizzonte troppo lontano - il conflitto fra i sessi e la differenza investono tutto ma nel medio e breve termine non spiegano quasi niente - sarebbe stata preziosa. Perché non dicono sul precipitare del quadro politico e sociale, e le culture che lo attraversano? Sarebbe prezioso per noi e per loro. Ancora più bizzarro, anche se secondo me meno grave, il silenzio di Liberazione sulle mozioni e l’assenza di Liberazione nelle medesime. Eppure il giornale è stato più d’una volta oggetto di un contenzioso in Rc. Per il resto si potrebbe discutere dello spazio dato alla situazione internazionale e alla globalizzazione, ma è comprensibile che il centro sia la situazione italiana: non sono libri, ma documenti su una sconfitta. E non è che di qualità ce ne siano troppi in giro. Almeno così mi pare. Spero che non sia una illecita ingerenza. Condividi