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“La morte non è nel non comunicare ma nel non poter più essere compresi”, scriveva Pier Paolo Pasolini di fronte alla necessità di cambiamento politico e sociale che egli intravedeva nelle more di quel 1968, passato alla storia come sinonimo di cambiamento, di novità, di rivolta. Si volevano cambiare molte cose e in effetti se ne cambiarono parecchie, soprattutto nell’atteggiamento verso situazioni e fenomenologie che fino a quell’anno erano state assunte come elementi intoccabili della stabilità sociale. Così gli operai scoprirono che “la salute non si vende”, che “il padrone conosce trecento parole e l’operaio cento e per questo è il padrone”, che era giusto fare “lotta dura senza paura per le riforme di struttura”, e scoprirono tante altre cose che avevano messo da parte o addirittura dimenticato. E furono compresi, furono compresi da una società che appoggiò le loro richieste in quel memorabile “autunno caldo”, da una società che voleva diventare più giusta e individuava in quei soggetti “marginali” dei formidabili compagni di strada. Furono comprese le loro richieste, fu compreso il significato delle loro lotte che andavano ben al di là del “contratto”, le fabbriche, fino ad allora ignorate o mitizzate ma comunque sempre assunte come una realtà “virtuale”, si aprirono agli interessi vasti di una trasversalità sociale che dimostrava di aver compreso l’importanza di quei luoghi dove andava riaffermata la giustizia, l’equità, i diritti, la sicurezza. Si ricominciò a parlare di fabbrica e di operai nelle scuole, nelle università, nelle parrocchie, nei circoli e negli ambienti culturali, nelle famiglie e nei media. Si comprese come fosse importante che gli operai e i luoghi di lavoro acquistassero la loro giusta rilevanza in una società che parlava di sviluppo sociale ed economico e si comprese come il lavoro in questa direzione dovesse diventare una necessaria “centralità”. Da quell’epoca, ormai sempre più lontana anche nelle conquiste che la caratterizzarono, ad oggi, inesorabilmente gli operai, i lavoratori, il lavoro, si sono resi sempre meno visibili fino a diventare effettivamente invisibili, a scomparire dall’attenzione sociale e soprattutto dai media che quell’attenzione nutrono e orientano, a loro volta nutriti e orientati da chi li possiede, dal momento che chi gestisce i mezzi gestisce ovviamente anche i fini. E i fini , anzi il fine più importante, per non dire decisivo, è stata la globalizzazione del capitalismo, con le sue necessità imprescindibili, veicolate e amplificate dai media , fatte assurgere in una martellante campagna mediatica quasi al livello di dogma. Un dogma dal quale loro, gli operai sono stati esclusi, un dogma che ha cancellato quella “centralità” del lavoro che era stata acquisita e che sembrava inamovibile, un dogma all’insegna del “post” sul quale oggi si interrogano sempre più tragicamente le società del mondo sviluppato e di quello in via di sviluppo. E’ stato a questo punto che gli operai “sono morti” e insieme ad essi quella cultura del lavoro che contraddistingueva la loro funzione sociale, il “ruolo operaio” è stato ridotto ad una devastante marginalità, per loro nell’ottica globale non c’è stata più nessuna possibilità di essere compresi. E i riflettori mediatici si sono spenti, nella zona d’ombra, quella che era la “classe” per antonomasia è stata sottoposta ad una incessante erosione di conquiste e di diritti, accusati di essere addirittura troppo costosi e anacronistici in un contesto di economia globale, a cominciare dal diritto alla sicurezza sul lavoro, sicuramente uno dei più costosi. La famosa legge 626, che in un’ottica europea doveva garantire i principi della sicurezza del lavoro, è risultata più una summa filosofica che uno strumento reale per contenere gli abusi commessi su questo terreno nei cantieri e nelle fabbriche. La sua inefficienza è stata favorita dal disinteresse mediatico, e da una reale difficoltà di gestione, così che di quegli abusi la maggioranza della pubblica opinione si è resa conto soltanto quando il numero delle cosiddette “morti bianche” non si è potuto più nascondere, insomma da quando la morte sul lavoro ha cominciato a “fare notizia”, portando a galla nello stesso tempo la situazione di disagio presente nel mondo del lavoro. La tragedia dello stabilimento torinese della multinazionale Thyssen Krupp è emblematica , a fronte di un investimento di ottocentomila euro per garantire il funzionamento degli apparati di sicurezza, si è preferito risparmiare quella somma: sette operai hanno pagato il conto. Solo allora, di fronte alle strazianti immagini dei telegiornali, l’opinione pubblica ha cominciato a comprendere l’esistenza di una “questione operaia” nel paese, così come l’impegno di quelle forze politiche che in questi anni hanno cercato di fare luce sul problema. “La morte non è nel non comunicare, ma nel non poter più essere compresi”, proprio come gli operai nel nuovo millennio. Condividi