Roberta POMPILI, Centro sociale Collettivo femminista. Intanto grazie per questa cosa. Noi siamo felici di questo momento. Sono vent’anni, da quando faccio dibattiti – ormai sono diventata vecchietta – da quando facciamo politica, che si parla di questo reddito sociale; lo abbiamo chiamato e lo abbiamo declinato in tanti modi, reddito di esistenza, reddito di cittadinanza, chi lo vuole in un modo, chi lo vuole in un altro, però finalmente anche in Umbria e anche in un contesto istituzionale, come è giusto che sia, si inizia a parlare di questo argomento e di questo noi siamo felici, noi come compagne e compagni che abbiamo un certo percorso di lotta, tra l’altro come precari. Io sono una precaria dell’Università, penso che sia importante attivare questo tipo di dibattito proprio per chi ha bisogno anche di sentire parlare di certe cose e ha bisogno di un certo tipo di sostegno economico. Quindi penso che rivolgere queste discussioni in contesti in cui esiste la precarietà, e non soltanto in contesti sindacali etc., che hanno altre forme di tutela, sia importante. La precarietà è un arcipelago anche frammentato e disarticolato, in cui non è facile arrivare; però, secondo me, questa è la direzione da prendere, innanzitutto perché, come diceva Carlo, il lavoro è cambiato. Noi pensiamo che il reddito di cittadinanza o il reddito sociale, come lo volete chiamare, non è un assegno di povertà, è un diritto, prima di tutto, è un diritto della contemporaneità, perché il lavoro è cambiato. Se non assumiamo la consapevolezza di questa trasformazione del mondo del lavoro, su cui esiste una ricca bibliografia – fortunatamente me ne devo curare, per alcuni versi, soprattutto per il lavoro delle donne – o noi assumiamo questa consapevolezza, o siamo destinati in qualche modo a soccombere, se non altro da un punto di vista intellettuale, vista la mole di lavori e di studi che ci sono al riguardo. Dunque, il lavoro è cambiato, non esiste più la dicotomia lavoro produttivo e lavoro riproduttivo, nel femminismo vent’anni fa dicevamo questo, quando dicevamo che il lavoro domestico deve essere retribuito, deve essere salariato, era questo che dicevamo. Dicevamo che quel lavoratore che andava in fabbrica non andava in fabbrica e basta, ma per arrivare in fabbrica doveva aver mangiato, doveva avere la camicia stirata, magari il figlio si era svegliato la notte e la moglie aveva dovuto sopperire alla cura del bambino, e quindi poteva arrivare in fabbrica grazie a un lavoro di riproduzione. Questo è importante, oggi è cambiato il lavoro, non si produce più il lavoro attraverso il profitto della fabbrica, quello che una volta si chiamava plusvalore della fabbrica, ma il valore del lavoro è diffuso nella società, esiste e questo è il riconoscimento della questione del reddito di cittadinanza, una natura sociale del lavoro. Il lavoro non appartiene soltanto ad alcuni contesti specifici di produttività, ma il lavoro è esteso alla vita, come diceva Carlo. Questo è importante, siamo arrivati con le lotte del femminismo a dire, appunto, che anche la donna che lavorava e si occupava di riproduzione, della vita dei figli e della riproducibilità del contesto lavorativo, era un significato della natura sociale del lavoro. Questo, secondo me, è importante. Oggi a cosa assistiamo? Assistiamo non solo ad una frammentazione di contratti e di tipologie, oggi si parla di femminilizzazione del mondo del lavoro, perché forme di governo del lavoro, di controllo del lavoro, del potere sul lavoro, che venivano articolate sulle donne, quella governance che veniva attuata sulle donne, che venivano costrette al lavoro senza che fosse visibile il loro lavoro, oggi appartengono anche ai precari. Il lavoro precario è femminilizzato, non ha nessun tipo di riconoscimento, nessun tipo di visibilità, nel senso della tutela, delle garanzie. E’ questo che noi rivendichiamo oggi, rivendichiamo il diritto al nostro lavoro, il diritto alla nostra esistenza, il diritto al riconoscimento che, anche quando da un contratto all’altro siamo fermi a casa e ci occupiamo, ad esempio, dei figli o ci occupiamo della ricerca del nuovo lavoro, in quel momento la nostra stessa vita è posta al servizio del lavoro. Allora, l’assunzione di questa trasformazione del lavoro oggi è un elemento centrale per capire che ciò di cui parliamo oggi e di cui vorremmo a parlare molto più spesso non si tratta di un assegno di povertà, ma è il riconoscimento di un diritto, un diritto importante. A noi non importa, non credo che sia importante il locale o il globale, qui bisogna cominciare a parlare di queste cose e chi spezza la prima lancia è un momento importante. Nel Lazio è partita questa legge, noi ne riconosciamo l’importanza, la validità, che dà un senso politico e una direzione; siamo contenti che si inizi a lavorare in questa direzione anche in Umbria. I soldi li trovi lo Stato, li trovi la Regione, si inizi a parlare in Europa; dappertutto, tranne in Turchia, ormai, credo, ci sono gli ammortizzatori sociali, qui non esiste assolutamente niente, perché c’è la famiglia e c’è il Vaticano, per questo vi siete potuti permettere che in Italia non esistesse niente e che il lavoro gravasse soltanto sulle spalle delle donne! E questo ve lo dovete scordare, perché esiste una nuova fase di consapevolezza anche delle donne, da questo punto di vista; quindi il riconoscimento di questo per noi è importantissimo. Dunque, che ci diate i soldi come Governo locale, che ce li diate come Governo statale, che si inizi a parlare da un punto di vista europeo o sovranazionale, come è giusto che sia, non ce ne importa niente. Dateci i soldi subito! Grazie. 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