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di Daniele Cibruscola “Non credo e non crederò mai alla frottola dell'aneurisma”. Roberta non vuole arrendersi a quella teoria - frutto di omertà, silenzi e indagini sommarie - che vorrebbe archiviare anzitempo l'inchiesta per omicidio volontario del suo compagno Aldo, il falegname umbro deceduto lo scorso anno nel supercarcere di Capanne, bollandolo come “tragico evento” dovuto ad un malessere tanto inspiegabile, nella sua manifestazione improvvisa, quanto deresponsabilizzante per coloro che in quel carcere sono preposti non solo alla custodia dei detenuti ma anche, e spesso a Capanne questo si dimentica, alla loro salvaguardia. “Perchè Aldo non era un delinquente – ha voluto ricordare Roberta durante la conferenza organizzata ieri nella Facoltà di Scienze Politiche dal “Comitato Verità per Aldo” - ma solo un umile falegname. Un uomo buono e un padre affettuoso; questo era Aldo”. Nei suoi occhi azzurri tutta la disperazione e la rabbia di una donna forte, alla quale il destino(?) ha strappato assieme al compagno anche un po' di sé e della tranquilla vita che stavano costruendo per il figlio in quel remoto casolare nelle campagne umbre. Troppe le incongruenze, troppi i dubbi di questa vicenda per non provare solidarietà e tuffarsi, anche se solo per un istante, nella profonda sincerità di quegli occhi tanto tristi quanto (comprensibilmente) gonfi di rancore. Chiavi della cella che nell'ora della morte del falegname, a detta dei responsabili del carcere, non sarebbero state in mano a nessuno, anzi: chiavi che in quel momento non sarebbero state neppure sotto la responsabilità di nessuno. Filmati delle telecamere a circuito chiuso spariti o posti sotto sequestro. Versioni differenti, quando riferite a soggetti differenti, dello stesso medico legale del carcere. “Ho parlato con lui dopo la prima autopsia – ha detto la donna durante il suo intervento – un dialogo a quattr'occhi nel quale mi ha chiesto che idea mi fossi fatta della morte di Aldo. Io ho subito risposto che pensavo si trattasse di un pestaggio “finito male” (le numerose emorragie interne e le costole rotte riscontrate nel cadavere in effetti non potevano condurre che a questa conclusione, ndA) ma lui mi ha interrotto dicendo: “No signora, nessun pestaggio finito male. Suo marito è stato percosso colpito agli organi vitali con colpi scientemente sferrati per non lasciare segni evidenti sul corpo”; voi come vi sreste sentiti?”. Ha chiesto poi, retoricamente, ad un'aula attonita e sconcertata. Una testimonianza agghiacciante, che poco lascia all'interpretazione ma che ha invece lasciato praticamente indifferente la Procura di Perugia. È stata la stessa procura infatti, la settimana scorsa, a dichiarare la chiusura delle indagini; una decisione cui ovviamente i legali della compagna, ma anche quelli della ex moglie e dei figli di Aldo, hanno fin da subito fatto opposizione. “Perché non si può morire in carcere”, è scritto nel volantino del Comitato. Perché non si possono dimenticare le tante morti “sospette” (come quella, di pochi mesi antecedente a quella di Aldo, del giovane Marocchino deceduto in seguito ad un banale intervento dermatologico) avvenute negli ultimi anni in quel carcere. Perché l'attenzione e la volontà di arrivare fino in fondo a questa strana vicenda sono le ultime forme di rispetto che Istituzioni e mezzi di comunicazione (entrambi forse troppo presi dalle sbornie e dalle orgie di delitti certamente più “commercializzabili”) possono mostrare nei riguardi dei familiari e dei tanti amici di un umile falegname. Un falegname che oggi, purtroppo, oramai non c'è più. Condividi