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I paesi produttori, ovviamente. E poi i brokers,quelli che di mestiere trovano le navi per trasportare i carichi di petrolio, e gli armatori delle cisterne che solcano i mari gonfie di oro nero. E ancora i traders, che comprano da chi produce e vendono a chi raffina o ad altri traders, e i grandi fondi d'investimento attivi sul settore energetico. Infine, i governi, specie quello americano e quelli europei che sui derivati del petrolio con le tasse ci vanno pesanti. Ecco chi guadagna mentre tutti gli altri -dagli industriali agli automobilisti - maledicono il caro-energia scatenato dai rialzi dei prezzi petroliferi. Interpellato da "La Stampa", il presidente dell'Eni ha puntato il dito contro «gli operatori che comprano il carico delle petroliere e le lasciano in balìa delle onde in attesa di margini di guadagno più alti», sottolineando come su alcuni prodotti come il West Texas Intermediate o il Brent del Mare del Nord, i contratti futures, cioè di acquisto a termine, sono di decine di volte. Insomma, i "cattivi" non sono i paesi produttori o le compagnie, come la stessa Eni, che pure migliorano decisamente i loro conti grazie al caro-greggio. No, secondo il capo di uno dei più grandi gruppi petroliferi del mondo, i cattivi sono loro: i traders, che in Italia vengono chiamati "noleggiatori", e forse anche i brokers, che dalle nostre parti si definiscono più prosaicamente "mediatori marittimi". Secondo altri osservatori, un ruolo decisivo lo sta interpretando pure il Nymex, il New York Mercantile Exchange, dove si scambiano mediamente 220 milioni di barili di petrolio al giorno, pari a 3 volte l'intera produzione mondiale e a nove volte quella dei paesi dell'Opec. Una Borsa in cui, accanto agli operatori delle grandi banche internazionali, come Goldman Sachs e Merrill Lynch, sono attivi anche piccoli traders chiamati "locals". Il loro guadagno è piccolo, pochi cents al barile: però in fasi di instabilità del mercato il ritmo degli scambi si fa frenetico (si è arrivati a 160 mila contratti quotidiani) e aumentano le possibilità di fare utili. Delle "categorie" sopraelencate e capaci, in misura diversa, di influenzare il prezzo del greggio, quelle dei traders e dei brokers sono sicuramente le meno conosciute fuori dalla stretta cerchia degli addetti ai lavori. Società come la svizzera Glencore, l'inglese Arcadia (che fa capo ai giapponesi della Mitsui), l'anglo-olandese Vitol,guidata dall'imperturbabile Ian Taylor, che ha studiato a Eton, in effetti, dicono poco al grande pubblico. Traders e brokers, che spesso hanno la loro sede legale in paesi fiscalmente molto accondiscendenti, non amano affatto apparire,ma fanno delle manovrine niente male. Il colpaccio in gergo si chiama "squeeze",cioè "spremere il mercato". E, guarda caso, proprio in questi giorni di fibrillazione planetaria intorno all'oro nero c'è qualcuno che lo squeeze lo ha messo a segno. Arcadia e Glencore, che sapevano che a settembre dai giacimenti di Brent (il tipo di greggio che viene utilizzato come indice per il petrolio che finisce in Europa) del Mare del Nord, soggetti a manutenzione, sarebbero usciti 22 carichi invece degli abituali 32 o 33, hanno fatto incetta acquistando carichi fisici di Brent. Così sono riusciti a venderlo con un premio di 3 dollari rispetto alla quotazione ufficiale. Tosco,importante raffinatore americano, ha denunciato l'operazione all'Antitrust, accusando i due traders e altri operatori di aver barato. La replica: tutti potevano sapere quel che sarebbe successo nel Mare del Nord, tutti potevano immaginare che, visto che la domanda cresceva, il prezzo del Brent di settembre sarebbe cresciuto. Chi si sta avvantaggiando apertamente del forte incremento della domanda, senza bisogno di particolari tecnicismi finanziari, sono però brokers e armatori. C'è penuria di navi cisterniere in giro e molte compagnie sono diventate più attente nell'affidare i loro carichi. Molte carrette del mare sono andate in pensione. I noli, nel giro di un anno, sono raddoppiati e in alcuni casi anche triplicati. I brokers lavorano a percentuale sul valore del nolo. Se l'armatore strappa un bel contratto al traders o alla compagnia petrolifera, il tradizionale 1,25 per cento s'ingrossa. Se in Italia la figura del trader è marginale (uno dei più noti è la Galaxy che opera da Montecarlo), la pattuglia dei brokers attivi è ancora consistente e si concentra soprattutto a Genova, dove lavorano per esempio la Banchero & Costa, la Burke & Novi, la Ferrotank, la Italia Tankers e la Sernavimar. Nessuno di loro crede alle navi che se ne stanno al largo in attesa che il petrolio salga ancora: con quel che costano i noli oggi, tener ferma una nave da 80 mila tonnellate costa 23 mila dollari al giorno. Chi può permetterselo? A livello internazionale i big del settore noli sono invece gli inglesi Clarkson, Gibson, Galbraith, Simpson e la norvegese Fearnleys. In America, big come Mc Quilling e Weber. Una bella rivincita dopo anni di vacche magrissime se la sono presa gli armatori. Il costo dei noli per le tratte da cinque giorni nel Mediterraneo è passato da 60 centesimi a un dollaro a barile; il viaggio di una petroliera dal Golfo Persico agli Usa, invece, è salito da 80 centesimi a ben 2 dollari a barile. Un'accelerazione da new economy per un business che più old non si può. Condividi