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Dopo la splendida iniziativa di giovedì’ 31 gennaio al 110 Cafè di Perugia, fortemente voluta dalla Consigliera di parità, dalla Rete delle donne umbre e da tante soggettività femminili, in ricordo di Mez, di Barbara e di tutte le donne vittime di violenza, il dibattito deve proseguire: per contrastare la violenza anche sul piano culturale, noi donne dobbiamo operare rotture simboliche. Il conflitto di genere deve diventare una pratica diffusa che si misura con scelte concrete: libertà, autodeterminazione, non-violenza, e soprattutto la laicità intesa come difesa delle istituzioni repubblicane, della scuola pubblica, della facoltà e libertà del Parlamento di legiferare autonomamente su materie come i diritti civili, l’eutanasia, la procreazione assistita. E’ noto che la violenza sulle donne possa manifestarsi non solo in forma di violenza fisica ma anche come violenza sociale, cioè come negazione dell’identità femminile da parte del contesto sociale di riferimento o delle strutture sociali stesse. Questo sistema di matrice patriarcale e classista si è servito delle istituzioni sociali (religione, diritto, sistema educativo, media) per assicurare la subordinazione delle donne nelle relazioni di potere familiari, economiche, sociali, ma soprattutto per controllare lo svolgimento della funzione procreativa della donna, considerata come un’obbligazione naturale. La negazione dell’identità femminile consiste nell’ostinazione da parte delle istituzioni nel voler caricare la donna di responsabilità sociali legate al suo corpo e alla funzione procreatrice che la natura le ha riservato, senza mai prendere in considerazione i diritti all’autodeterminazione, slegati dalla funzione riproduttiva. Tale concezione è il frutto di una cultura di tipo patriarcale e religiosa e altro non rappresenta che l’esercizio secolare del potere di controllo da parte dell’uomo e di Dio sul corpo della donna per preservare la sua capacità procreativa. Senza andare lontano nel tempo, fino a pochi anni fa lo stupro era considerato un reato contro la morale e non contro la persona proprio perché il corpo della donna era considerato sacro e inviolabile solo perché assolveva alla sua funzione essenziale cioè quello della riproduzione. Ancora più il diffondersi di politiche liberiste, l’atteggiamento moralista della destra e di parte del centro-sinistra, le posizioni conservatrici delle gerarchie ecclesiastiche costituiscono una base ideologica forte che legittima la condivisione di un ruolo subalterno della donna e alla sua funzione chiave che riveste nella famiglia. Così la morale patriarcale dell’unità della famiglia risulta in primo piano rispetto al diritto alla vita della donna che proprio in questa sede subisce violenza. Donne che malgrado tutto tentano di autodeterminarsi cercando faticosamente di conquistare spazi di indipendenza economica, sessuale, invadendo le sfere di competenza maschile, riappropriandosi dei propri corpi, ma questi passi vanno a destabilizzare l’intera struttura sociale. Ogni qualvolta le donne reclamano maggiori diritti politici, all’istruzione, al lavoro la reazione è violenta: l’ideologia patriarcale è nelle istituzioni perché queste sono ancora al maschile, ed è valida in quanto sostenuta dal potere reale dei media e della legge. L'ennesimo attacco all'autodeterminazione delle donne (moratoria contro la 194) è cominciato dopo neppure un mese dal grande corteo “Contro la violenza maschile sulle donne”, che ha indicato nella "famiglia naturale", santificata e difesa dalla religione e dalla politica, la radice principale della violenza misogina in tutto il mondo. Nel momento in cui le donne hanno scelto di autorappresentarsi e di sottrarsi alla logica della delega e della "protezione", la chiesa e la politica si alleano per ricondurle coercitivamente all'ovile, a quel "sacro focolare" che ne impedisce ogni autonomia di percorso asservendole all'uomo, alla famiglia, alle gravidanze. La donna per autodeterminarsi deve essere informata degli strumenti giuridici e sociali in suo possesso, e deve veder riconosciuti i suoi diritti che sono fondamentali e che lo Stato non deve negare. Il riconoscimento dei diritti fondamentali della donna è un impegno che riguarda tutta la comunità è deve essere un obbligo per lo Stato. Garantire le pari opportunità significa garantire alle donne il diritto a vivere liberamente il proprio corpo e la propria sessualità senza dover temere le ritorsioni di uno Stato che ancora oggi tutela la famiglia piuttosto che la salute e l’autodeterminazione della donna. Quello che manca è un’ampia campagna di sensibilizzazione, di prevenzione ed educazione, è evitare che al momento della denuncia o della cura la violenza non venga riconosciuta, è evitare che si verifichino ingiustizie al momento dell’applicazione delle leggi perché i soggetti giudicanti mancano di una prospettiva di genere, è riconoscere che la violenza maschile contro le donne è un crimine contro l’umanità e che il maggior problema strutturale della società è l’ineguale distribuzione di potere nelle relazioni tra uomo e donna. Noi donne siamo “uscite dal silenzio” e chiediamo la partecipazione attiva degli uomini nelle azioni volte a contrastare la violenza sulle donne. Condividi