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di L. Spaccini “ROMA (20 novembre) - Oltre 23 milioni di occupati nel 2006: è il massimo storico per l'Italia, con un tasso di disoccupazione al gradino più basso mai toccato, pari al 6%. …”; così iniziava un articolo del Messaggero di giorni fa che riportava dati resi noti dall’ISFOL (Istituto per la formazione dei lavoratori). Continuando nella lettura si scopriva poi che circa il 20% degli occupati era a tempo determinato mentre le forme di lavoro atipico interessano circa 4 milioni di lavoratori. Il lavoro, con la sua discontinuità o addirittura con la sua mancanza rimane comunque una spada di Damocle sulla testa di milioni di persone più o meno giovani, al di là di sterili percentuali o incrementi occupazionali sbandierati ( bisognerebbe capire come fanno i conti; uno che ha tre contratti a tempo in un anno, conta come tre assunzioni?). Chiediamoci quali sono le ripercussioni a livello sociale del lavoro precario o della disoccupazione: è logico pensare subito al fattore economico diretto ( spesa, affitto, utenze, salute) ma c’è un aspetto apparentemente secondario da non trascurare: la difficoltà se non addirittura l’impossibilità di vivere la società in tutti i suoi aspetti. La mancanza di fondi t’impedisce di partecipare ad eventi culturali come mostre o concerti, impensabile il poter recarsi a visitare città d’arte, spesso si rinuncia all’acquisto di quotidiani, riviste e libri, si è costretti anche a ridimensionare le occasioni di convivialità e così via. Si comincia a vivere la società più o meno di riflesso, si riducono le possibilità di interagire in maniera costruttiva con il mondo che ci circonda e la capacità di critica, con il rischio di cadere nelle trappole di chi cavalca l’onda dell’antipolitica, dei populisti, dei“proclamisti” con in tasca la ricetta per sanare il paese col liberismo più selvaggio o di chi risolve tutto con “sia fatta la volontà…”. Con questo non voglio dire che perdendo il lavoro si diventi automaticamente idioti, ma, a lungo andare, quel senso d’impotenza, quella sottile disperazione che lentamente si fa strada nell’animo di chi ha consegnato decine di curricula, bussato a centinaia di porte, sostenuto innumerevoli colloqui per poi sentirsi dire che è troppo giovane o troppo vecchio, che non è qualificato o ha troppa esperienza, può fiaccare anche gli spiriti più forti. Ci si comincia a sentire quasi trasparenti, si vive con disagio il rapporto con la società, quasi si accetta il pensiero che in fondo siamo noi che sbagliamo, che non andiamo bene per questo maledetto mercato del lavoro. Già, forse può essere sintomatico il fatto che ora si chiama “mercato” del lavoro quello che una volta era il “mondo” del lavoro. Anche le parole hanno la loro importanza. Quasi quanto le persone. Condividi