vita_di_galileo_kl.jpg
di Isabella Rossi Il suo Don Chisciotte parla del rapporto tra attore e mondo del teatro, tra attore e mito. Il mito vive nel tempo eonico, lo spettatore nel kronos e l’attore? L’attore non si trova. Il Don Chisciotte è un trattato sull’imitazione. C’è una messa a fuoco sulla finzione, sono tutte finzioni che si susseguono. Borges potrebbe spiegare questo spettacolo, il materiale è suo. Nel romanzo di Cervantes c’è una grande porzione di teatralità che tuttavia si perde nel tentativo di trasposizione. Lo spettacolo vuole proprio sottolineare questa impossibilità al di fuori del romanzo. Ma attenzione: io non sono il Chisciotte di Cervantes e non ho il problema di diventarlo. C’è un Chisciotte nell’ombra quello sono io. Sono molti i temi trattati. Si parla del teatro da mattatore. Non è nostalgia dell’attore tradizionale. E’che il teatro di oggi ha il tono del teatro emozionale. Hanno potuto accedere al teatro cani e porci determinando un abbassamento di livello ampiamente percepito dal pubblico. Una volta a Perugia nei locali, nei salotti si parlava di teatro. Di un teatro che rappresentava una forma artistica adulta. Ora molti degli spettacoli sono monologhi. Ma il teatro non conosce il monologo, è tutto un equivoco. La bravura non è la performance, il teatro è una forma di conoscenza e, sostanzialmente, sta in rapporto diretto con la letteratura. Perché la scelta di imitare Gassman e Bene? Avrei potuto portare in scena anche Stanlio e Olio ero più bravo nell’imitazione di Gassman e Bene. Sono tutte coppie parodiche. La differenza fra loro ed Oreste, ad esempio, è che i personaggi della tragedia non sono caratteri. Don Chisciotte lo è, così come Don Giovanni e Mimì. Vengono molto meglio in musica. Don Chisciotte, Sancio Pancia si scoprono personaggi di un romanzo. Il libro nel libro è metafora della sospensione tra finzione e realtà. Sospensione che abilmente viene estesa anche al pubblico in sala. Mentre questi confini diventano sempre più labili l’attore nel suo Don Chisciotte è cullato, protetto, quasi nascosto dietro all’imitazione. Diventa così lui l’unica vera astrazione? Giusto, sì sono d’accordo. La crisi del teatro è una crisi di civiltà? Sì lo è nella misura in cui coinvolge vari aspetti del mondo teatrale. C’è un problema di talenti. Chi è bravo non si occupa di teatro. Anche un bravissimo autore non lo fa. Una persona di talento ad esempio preferisce lavorare per la televisione. Un problema di programmazione nei Teatri Stabili. Sarebbero necessari dei concorsi per i direttori. Dal loro livello di preparazione dipende tutto. E anche i critici sono spesso sottoculturati, non hanno una formazione adeguata. La politica in Italia ha eliminato il talento e la professionalità sostituendoli con una mediocrità dannosa e imbarazzante. Per quanto riguarda il teatro è fermo a Beckett, a colui che lo ha rivoluzionato. Il teatro occidentale che nasce dal testo finisce con Beckett. Un po’ come il romanzo, tutti scrivono ma la letteratura è ferma. Ci sono spettacoli che hanno uno o due stagioni di vita ma che non lasciano il segno. Sono spesso fatti di cronaca portati sul palco, ma quello non è teatro. Penso inoltre che l’Italia, contrariamente ad altri paesi nord europei, non sia un paese teatrale. Il teatro italiano vero è l’opera lirica, il varietà. Occorre ripartire da Beckett per andare avanti. E una cosa è certa, il pubblico riconosce la qualità. Lo ha dimostrato anche qui a Perugia, in sole tre repliche c’è stato un crescendo di pubblico grazie al passaparola. Condividi