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Noi, ministri delle finanze del G7 e governatori delle banche centrali, siamo riuniti oggi nel mezzo di una crescente e severa crisi dell'economia globale e di una baraonda finanziaria. La stabilizzazione dell'economia globale e dei mercati finanziari rimane la nostra più alta priorità». Comincia così, con toni tanto enfatici quanto inutili, il documento conclusivo della due-giorni romana dei ministri economici dei Sette Grandi, ovvero i sette paesi (occidentali, se si esclude il Giappone) più industrializzati, nel tentativo di affrontare la Grande Crisi e di darsi strumenti adeguati, immediati e condivisi, per cercare di contrastarla, di controllarne le cause e gli effetti in una sperabile azione di prevenzione - anche se tutto (tutto?) è già successo - e di trovare il modo per uscirne senza ulteriori danni e soprattutto mettendo un freno, se possibile, alle conseguenze che bussano inesorabili, con i numeri resi noti ancora ieri dalla Banca centrale europea. Alla porta delle economie reali, cioè dei rispettivi sistemi produttivi, mercati di riferimento, ricadute occupazionali, in una spirale centripeta che sembra avvitarsi sempre più stretta e precipitare in un "buco nero". Il documento predisposto a conclusione del summit al Palazzo delle Finanze, dopo una analisi che ripercorre le tappe della crisi, elenca le misure da prendere «tutti assieme» per stabilizzare i mercati e implementare un pacchetto di misure fiscali in grado di reperire le risorse per incrementare la spesa pubblica, stimolare la domanda interna, creare posti di lavoro,proteggere le fasce più vulnerabili. Inoltre, i Sette Grandi ritengono che sia arrivato il momento per incrementare le prospettive di crescita sul lungo termine, indirizzando verso ciò che rappresenta debolezze strutturali il massimo di investimenti mirati, ridefinire consistenti misure di sostenibilità fiscale sul medio termine e rivolte a obiettivi temporanei. I Sette Grandi riaffermano che mercati estremamente volatili e il disordine finanziario comporta implicazioni avverse al conseguimento della stabilità economica e finanziaria. A questo fine sollecitano la Cina per una regolamentazione del mercato interno dei cambi e per un apprezzamento del renmimbi, nel senso che auspicano la rivalutazione della moneta cinese, la cui debolezza impedisce un crescita bilanciata della stessa Cina nell'ambito dell'economia mondiale. Il G7 si pronuncia inoltre contro qualsiasi forma di protezionismo (nonostante che in contemporanea il presidente degli Stati Uniti, assieme a un pacchetto di 787 miliardi di dollari stia introducendo una politica protezionistica per sostenere la produzione a stelle e strisce), sostenendo che «il G7 rimane fermamente contrario a misure protezionistiche, che non farebbero che esacerbare la crisi, finendo per innalzare nuove barriere, proprio quando si rende necessaria un'azione urgente di sviluppo multilaterale, promosso attraverso le banche e le istituzioni finanziarie, per rimuovere vincoli e ostacoli alla circolazione dei capitali, in modo da facilitare l'accesso al credito ai paesi poveri e in via di sviluppo e alle economie emergenti, nel rispetto delle linee guida stabilite nel Doha Round». Arriva infine la richiesta di «riformare urgentemente quelle debolezze strutturali che la crisi ha messo in luce all'interno del sistema finanziario internazionale, anche attraverso una revisione del ruolo del Fondo monetario internazionale, attribuendogli risorse straordinarie per rispondere con strumenti efficaci e flessibili alle esigenze che la crisi in corso pone, e con una maggiore collaborazione con il Financial Stability Forum, che è l'entità in grado di individuare tempestivamente i rischi che si presentano a livello macroeconomico. Allo stesso modo è benvenuto il contributo della Banca mondiale e delle banche che si occupano di sviluppo regionale, che sono quelle che mettono in atto politiche effettive e le risorse necessarie a sostenere i singoli paesi maggiormente colpiti dalla crisi». Come si dice: aria fritta. Vorremmo vedere chiunque avesse detto qualcosa di diverso. Il nostro ministro dell'Economia ha dunque ribadito: «Sosterremo la crescita e l'occupazione; la nostra più grande preoccupazione adesso è la stabilizzazione dei mercati; siamo impegnati a evitare ogni forma di protezionismo». «Tutti gli istituti - sottolinea anche il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi - devono tirare fuori tutti gli asset tossici dai loro bilanci». Che cosa tutto ciò possa voler dire in termini di politiche "attive" del governo per fronteggiare la crisi in casa nostra questo sarà tutto da vedere. Noi siamo infatti il paese che più di ogni altro si accontenta di dichiarazioni di intenti, della "recitazione della politica". Poi tutto scivola via nella noia del non fare, del non saper fare, del non voler fare, e nell'insipienza dell'«ognuno per sé e dio per tutti». Così l'Italia continuerà a languire in attesa di queste fantasmagoriche "nuove regole", di «un nuovo ordine mondiale», come ha tuonato Giulio Tremonti alla fine. Mentre Zapatero si pone alla testa delle riforme economiche nel suo paese, mentre Angela Merkel torna a casa con il viatico per mettere mano a misure in grado di frenare la perdita di altri due punti del prodotto interno lordo tedesco, mentre Sarkò darà la stura alle politiche di Stato per far recuperare alla Francia la sua storica contendibilità sui mercati, e mentre Barack Obama avvia la stagione dell'"obanomics" con un "pacchetto", approvato dal Congresso e a denti stretti anche dal Senato degli Stati Uniti, che intanto stanzia quasi 800 miliardi di dollari per: «Interventi nelle infrastrutture, sanità, istruzione, casa, disoccupazione, incentivi per le energie rinnovabili». Condividi