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di Laura Eduati e Barbara Spinelli «Prima o poi ti ammazzo è una espressione delle nostre parti. Mia moglie non l'ho mai picchiata, al massimo smanate e schiaffettoni che non lasciano il segno, la violenza vera è quella che ti manda all'ospedale e Barbara non è mai finita al pronto soccorso». Unico imputato al processo per la morte della moglie Barbara Cicioni, 33 anni, incinta di otto mesi, Roberto Spaccino si difende con un sorriso beffardo. E' accusato di omicidio aggravato e maltrattamenti, la pm Antonella Duchini lo incalza proprio sugli schiaffi che per anni ha riservato alla moglie come parte integrante del ménage famigliare. E lui, stizzito, distingue tra litigio e botte. Il litigio, nel mondo di Spaccino, sono schiaffetti, schiaffettoni, "sventoloni", "smanate", e tutto questo «non sono botte». Perché le botte «sono quelle che lasciano il segno», sono i "boccaloni" dati con il rovescio della mano. Roberto diceva spesso «io questa prima o poi l'ammazzo», l'uomo precisa che questo è un modo di dire di Marsciano, «un intercalare nostro, mio e di mia moglie». Rinchiuso nella gabbia dell'aula della Corte d'Assise di Perugia, l'uomo trova il tempo per scherzare con gli avvocati, salvo poi piangere quando pensa ai figli Nicolò e Filippo affidati al prozio di Barbara. I suoi difensori provano a convincere i giudici che Spaccino quel 24 maggio 2007 non strangolò Barbara perché lui è un uomo perbene, non si ubriaca, non fuma, non gioca d'azzardo e insomma al massimo frequentava qualche night, tradiva talvolta la donna con le clienti della lavanderia e prostitute e tuttavia non aveva una relazione extraconiugale fissa, spesso le urlava "sei una puttana come tua madre" perché la madre aveva divorziato presto da un marito violento, le diceva "sei un cesso" e "sei grassa", eppure Spaccino le regalava sempre delle rose per il suo compleanno ed «era cocchino e premuroso», questo padre di famiglia non è stato mai denunciato per rissa né per maltrattamenti domestici e se Barbara non è mai andata dalla polizia a raccontare che veniva malmenata dal marito, perché mai lui sarebbe poi arrivato persino ad ucciderla? La cronaca del processo Spaccino è la cronaca di un femminicidio che non fa scalpore e che tuttavia racconta l'esasperante normalità della violenza domestica. Spaccino, uomo qualunque, è italiano e tutto porta a pensare che abbia ucciso la moglie: tuttavia non è straniero e non ha stuprato nessuna. Statisticamente, Roberto impersona l'identikit più frequente e sottaciuto: il 69% degli stupratori è marito o fidanzato della vittima mentre soltanto il 10% dei violentatori è straniero. E questo vale anche per i femminicidi. Racconta Spaccino che quella sera, sul tardi, tornò a casa e trovò Barbara morta sul pavimento della camera da letto, i due bambini dormivano nella stanza accanto ma nei giorni successivi disegnarono la madre a terra in un lago di sangue. Agli inquirenti Roberto, ex camionista, disse che erano stati gli albanesi ad uccidere la moglie dopo una rapina: mancavano soldi e gioielli, la casa a soqquadro. Vivevano in una villetta di Compignano, una frazione di Marsciano (Pg). Poche ore prima del funerale scattò l'arresto: Roberto aveva ammesso le liti frequenti, un famigliare durante una intercettazione disse che si trattava di una «morte annunciata» perché in paese si sapeva che Roberto picchiava Barbara ma nessuno aveva il coraggio di intervenire, nessuna folla inferocita come quella di Guidonia si riuniva sotto le finestre della villetta per linciare l'aguzzino di quella donna dal viso dolce e serio. Roberto era uno di loro, un padre di famiglia che portava i bambini a calcio. Come dice Spaccino, era Barbara «il cervello della famiglia»: aveva aperto una lavanderia e la gestiva con il marito. Durante la perizia psichiatrica in carcere, Roberto evidenzia che «il carattere della moglie era piuttosto forte, più del suo (...) una donna forte che non si faceva sottomettere facilmente». Di se stesso, allo psicopatologo forense Giovanni Battista Traverso, dice di essere «un uomo tranquillo»: Traverso afferma che l'imputato possiede «un piano cognitivo sostanzialmente integro» e privo di patologie psichiatriche, cioè un uomo assolutamente normale. Si erano conosciuti ad una sagra di paese quando Barbara aveva appena quattordici anni e lui 18, lei aveva vissuto il divorzio dei genitori in maniera traumatica e non voleva separarsi per evitare un dolore ai figli. Il marito non era affatto contento della terza gravidanza, le ripeteva come una cantilena «questo figlio non è mio». La accusava di averlo tradito, quando era lui a svolazzare di donna in donna. Interrogato questa settimana per la prima volta durante il processo, Spaccino si lascia andare a considerazioni contradditorie: «Barbara era molto gelosa, non so perché». Poi modifica la sua versione: «In tutta la mia carriera ci sono andato (con le donne, ndr ) tre o quattro volte». Sottigliezze. Le prodezze del marito di Barbara sono varie, includono persino un rapporto sessuale con una spogliarellista in cambio del lavaggio di un tappeto del valore di 36 euro. Proprio per sottrarsi al controllo della moglie, l'aveva convinta ad aprire a nome suo una seconda lavanderia a Deruta dove ammiccava e seduceva numerose donne. Con la scusa di un incidente che lo aveva costretto a lasciare il mestiere di camionista, Roberto passava ogni anno una settimana alle terme e anche nelle piscine calde trovava gradevole la compagnia femminile. Dai verbali dell'udienza emerge la dicotomia sessita: a casa la moglie e madre seria, fuori le frequentazioni allegre («Certo che la gelosia di Barbara mi dava fastidio, io le dicevo che non c'era niente. Del resto lei che ne poteva sapere? E le avventure, si sa, ce l'hanno tutti»). Lavorava come un mulo, la donna, figli e lavanderia e un marito che pretendeva tutto. La sera della sua morte avevano litigato, Roberto insisteva per andare quella sera tardi a fare il distillo in lavanderia, Barbara sospettava che fosse una scusa per dedicarsi a nuove scappatelle, lui aveva alzato le mani contro Barbara e lei si era messa un cuscino davanti la faccia per attutire i colpi e non svegliare i bambini, questo è almeno il racconto del marito che oggi ripete continuamente che lei gli aveva fatto male al dito, quel 24 maggio. La famiglia Spaccino fa cerchio attorno al figlio accusato di omicidio, d'altronde un giorno Barbara aveva colpito col mestolo Roberto sulla mano e il suocero, vedendo il figlio col dito sanguinante, le aveva detto: «Se non la smetti di toccare mio figlio ti mando a casa tua e ti rompo la falce sul collo». Nel clan Spaccino la violenza era usuale, tanto che la cognata di Barbara le aveva suggerito un avvocato che curasse la separazione. Nel corso del suo esame, il 27 e 28 gennaio scorsi, Spaccino se la prende con la stampa e la televisione accusandoli di dipingerlo come un mostro: «Io a mia moglie non ho mai messo le mani addosso, non gli ho mai menato». Una visione distorta della violenza: io non sono violento, sono violenti gli altri, gli stupratori, gli stranieri, quelli che mandano all'ospedale. E senza rendersene conto si contraddice, ammette che gli «schiaffetti» erano continui per motivi banali e quotidiani, «se la cena non era pronta» oppure «quella volta dei calzini», e comunque gli schiaffetti erano reciproci, anche Barbara «smanava» e dunque lui doveva mollarle dei ceffoni «per calmarla» come se reagire per legittima difesa, da parte della donna, lo autorizzasse a rispondere con maggiore forza. Successe anche il 24 maggio 2007, Spaccino ammette di aver schiaffeggiato la donna ma di essere uscito alle 23.30 per andare alla lavanderia quando Barbara era steso sul letto, viva, e di averla trovata morta al ritorno, a mezzanotte e mezzo. Dall'autopsia risultò che la Cicioni era stata strangolata verso le dieci e trenta, massimo undici, provocando inoltre la morte in grembo della piccola Viola. E poi i Ris trovarono tracce di sangue della vittima, portate dall'assassino, dalla camera da letto fino al garage e dentro l'Opel Zafira di Spaccino. Il 30 maggio l'uomo venne arrestato e portato nel nuovo pentitenziario di Capanne, nella periferia di Perugia, con l'accusa di omicidio volontario aggravato da futili motivi, dalla crudeltà verso la vittima e dal rapporto fra coniugi. Successivamente venne trasferito al carcere di Terni, dove si trova tuttora. La procura di Perugia gli contesta anche gli abusi nei confronti di Barbara e dei figli poiché li ha costretti ad assistere ai maltrattamenti, l'interruzione di gravidanza e la simulazione di reato. Cinque associazioni aveva chiesto di costituirsi parte civile, i giudici perugini ne hanno accettate tre (Telefono Rosa, Differenza Donna, Comitato internazionale 8 marzo), mentre le altre due (Giuristi Democratici e l'associazione Ossigeno onlus) stanno comunque seguendo il processo insieme con la Rete delle donne umbre e il Sommovimento femminista di Perugia per fare comprendere che la morte di una donna per mano del marito è una violazione dei diritti umani. Il processo Spaccino, al di là della cronaca giudiziaria, entra nelle viscere di un delitto famigliare e della violenza domestica, mostra come in una grottesca pièce teatrale i meccanismi alla base del sessismo e del patriarcato: la madre di Roberto che chiama «puttane» le donne che il figlio frequentava, la difesa di un uomo che minimizza le botte e considera «sfaticata» la madre dei suoi figli. Le femministe chiedono alle donne di partecipare alle prossime udienze del 12 e 19 marzo, 2, 14 e 21 aprile e per la lettura finale della sentenza di primo grado a metà maggio. Condividi