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di Isabella Rossi Quando un omicidio viene effettuato all’interno della casa della vittima, secondo i dati Eures del 2004, nella stragrande maggioranza dei casi l’assassino è il marito. L’omicidio di Barbara Cicioni, rientra in ben quattro categorie vittimologiche, ha spiegato Roberta Bruzzone, criminologa e psicologa forense, durante una recente udienza del processo per l’omicidio della donna umbra. Donna fra i 20 e i 40 anni, moglie (o partner con lunga convivenza), madre e in stato di gravidanza, sono queste le cosiddette categorie a rischio, ha spiegato la dottoressa. Sinora la criminologia si è sempre occupata di capire la psicologia e la personalità del criminale, poca attenzione invece è stata prestata a quelle caratteristiche che rendono una persona maggiormente predisposta a diventare vittima. Nella ricostruzione vittimologica che la psicologa ha fatto di Barbara Cicioni la predestinazione, oltre l'appartenenza alle sopracitate categorie, è riconducibile a due elementi: fragilità emotiva, dovuta alla separazione dei genitori in giovanissima età e sudditanza psicologica dal marito, conosciuto all’età di quattordici anni e sposato all’età di 24 anni. Il comportamento ingiurioso vessatorio di Roberto,illustra la criminologa, emerge sin dai primi anni con episodi che sottolineano il suo sentimento di possesso nei confronti di Barbara. Dai ceffoni per un buco all’orecchio “non autorizzato” durante il fidanzamento, alle violenze, ai soprusi, all’insulto sistematico, utilizzato per indebolire l’autostima della moglie. Moglie che tuttavia riesce a metter in piedi una fiorente attività e che è l’autrice del successo dell’impresa di famiglia. Ecco dunque che l’indipendenza economica rafforza l’autostima di Barbara che ora alla violenza, verbale e fisica, reagisce rivolgendosi ad un avvocato. E’la convinzione che lui, oltretutto, la tradisca a far crollare quell’ostinato sogno di idillio familiare che la giovane donna porta avanti sin dall’infanzia. I sentimenti tuttavia oscillano. Se con un sms inviato al marito durante le cure termali in primavera Barbara lo intimava a chiudere il punto di raccolta di Deruta, ritenuto un capriccio dello Spaccino, altrimenti avrebbe chiesto la separazione, dall’altro ha poi prevalso ancora una volta la paura. Il timore che ai propri figli fosse riservato lo stesso suo disagio, quello di figlia di divorziati. Quello spettro della separazione vissuta come una condanna a “morte civile”, ad una ghettizzazione sociale, all’inferno del fallimento familiare è tuttavia l’aspetto meno approfondito di questo processo. Perché, ci si chiede, neanche le minacce di morte di suo marito, l’atteggiamento di disprezzo che lo stesso adottava anche in presenza dei figli e di altre persone, le menzogne e le meschinità hanno potuto convincere la giovane donna a mettere la propria incolumità e quella dei figli al di sopra di tutto? Il sentimento di possesso della donna da parte dell’uomo, che sia egli marito, convivente, fidanzato, padre o fratello, ma spesso anche datore di lavoro o semplice amico, fa parte di quel retaggio culturale da cui non è immune non solo l’Umbria ma tutta l’Italia e le altre democrazia occidentali. In Italia tuttavia subentra un altro elemento a scapito della crescita culturale e civile del contesto sociale e a condanna di tante, troppe donne: la mitizzazione della famiglia. Non è il mito della superiorità maschile, anch’esso ancora insistentemente e propagandisticamente riproposto in Italia e ravvisabile negli atteggiamenti e nei discorsi di molti politici, Barbara non si sentiva inferiore a suo marito né psicologicamente, né purtroppo fisicamente. Più della violenza è stato il mito della famiglia ad uccidere le sue intenzioni di ricostruirsi una vita. E’ proprio la mitizzazione della famiglia e l’assenza di una cultura che onori veramente il giusto equilibro tra i sessi, l’eroismo di madri separate tra mille difficoltà, il coraggio di donne spesso costrette a cercare una via alternativa, a fare di donne intelligenti e capaci vittime predestinate. Condividi