di Fausto Bertinotti - N°57 de "Alternative per il socialismo".

Le vicende dei nostri giorni – che sono indubbiamente eccezionali – ci inducono e ci obbligano a un’indagine sia sulla crisi della politica, che sulla crisi più profonda, quasi di natura antropologica, del vissuto dei nostri giorni. La cri­si della politica è molto evidente. In Italia essa è facilmente rintracciabile nella mancanza di autorevolezza, delle istituzioni rappresentative di qualsiasi ordine e grado: dal governo alle regioni esse sono state semplicemente una carta assor­bente. I Parlamenti e le assemblee sono stati, di fatto, sospesi. A differenza delle parole dei sistemi di comunicazione che sono state pesanti, le parole della po­litica sono state leggere, anche e soprattutto quando urlate, prive di qualunque influenza. È vero che la politica ha perso legittimità da diverso tempo, ma anche in un frangente come questo, in cui non sono in campo direttamente le categorie classiche della politica, ha dimostrato la sua impotenza, la sua totale estranei­tà alla vita comune delle persone. Possiamo, in questa cornice, individuare un elemento specifico di crisi nel sistema istituzionale italiano che ha mostrato la sua incongruenza.

Il rapporto tra il potere centrale e il potere delle regioni si è rivelato non disciplinato da un comune sentire e da una comune cultura. Messa in mora l’autorevolezza dei comuni – la cui autonomia, che ha a che fare con le radici della grande tradizione italiana, sarebbe stata fruttuosa – il bilanciamento tra potere centrale e regioni è tra due ordinamenti burocratici, entrambi privi della linfa vitale del popolo. L’architrave stessa dello Stato repubblicano dovrà essere ripensata e proprio alla luce della questione decisiva, la costruzione di un popolo […]. Un filosofo di qualità come Roberto Esposito, ha proposto di leggere questa pra­tica di governo in chiave di biopolitica. Come nel capitalismo della sorveglianza di cui parlava Monsignor Paglia, la questione di vita e di morte occupa allora il centro del conflitto politico e il controllo dei corpi diventa la frontiera di un nuo­vo autoritarismo. La frontiera della costruzione di nuovi regimi autoritari che non hanno più bisogno di istituire a questo scopo veri e propri regimi di polizia, tantomeno repressioni militari. L’autoritarismo cambia di spalla al fucile. Lo stato di eccezione diventa regola, diventa una fisiologia da far accettare sulla base di una evidenza proclamata: oggi la pandemia, domani una crisi economica e sociale. È proprio l’intreccio tra politica e vita biologica che propone di mettere la sicurezza, non la sua concreta attuazione, ma l’idea di sé, sopra la concreta libertà e l’autogoverno delle per­sone.

La produzione legislativa e ordinamentale diventa così sistematicamente emergenziale. Si dice del ritrovato primato della scienza contro la stregoneria che si era affacciata nelle nostre società qualche tempo fa; lo si dice per trovare una giustificazione a questo procedere della politica, ma qui medicina e politica si sono mescolate tanto da rendere illeggibile il confine e ucciderne le reciproche autonomie. Come, seppur diversamente, nel primato dell’economia sulla politica. Non sono sue le leggi a cui la politica ha aderito come fossero tali? La medicina si fa politica e la politica morente, persa una propria visione del mondo, si costruisce in un girotondo tra la paura che essa stessa genera e il suo inseguimento con i provvedimenti da adottare. Il ruolo della comunicazione di massa diventa, in questa giostra, quello di un protagoni­sta a pieno titolo.

Il controllo di ogni comportamento personale si realizza nella costruzione di uno stato postdemocratico, con la sospensione della democrazia e con il controllo dei comportamenti dei singoli individui e, progressivamente, di intere aree della popolazione. Ieri, ma anche oggi, gli immigrati come, oggi e do­mani, i contagiati e i contagiabili. Si può obiettare: “ma via, il virus c’è, il rischio di contagio pure, esso è una minaccia esistente. E poi non si vorrà sostenere che il governo Conte, il debole e precario governo Conte, sia protagonista di un così grande disegno!”. No. Lui, loro, no. O almeno non lo sono consapevolmente, ma la macchina e il sistema sì. Bisognerebbe leggere Foucault anche se non solo per ripensare le libertà in questo nostro tempo di transizione. La forza della macchi­na sta nella combinazione di una condizione di reale emergenza, nata fuori dalla realtà sociopolitica, e l’intero ciclo politico, economico e istituzionale che l’ha preceduta per un quarto di secolo.

Un ciclo che ha sostituito la democrazia con un assetto oligarchico e uno stato sociale imperfetto ma rivendicato dai conflitti con il primato del mercato e il dominio del capitalismo finanziario. Perciò se ne esce, nell’oggi come nel domani, solo mettendo mano alla costruzione dal bas­so della società, del conflitto di una democrazia radicale nella quale dare vita a un’alternativa del modello economico-sociale e degli assetti di potere. L’Europa è questo campo di azione e di pensiero […]. Perciò bisogna sottrarsi all’idea ipocrita e consolatrice che domani saremo, come per incanto, tutti migliori e migliore sarà il mondo in cui vivremo. Al contrario, proprio la precarietà, le poche certezze e il dolore di oggi da un lato, e la pochez­za della politica che si ingigantisce di fronte al virus dall’altra, sono figlie di un sistema economico e di una devastazione della politica che lo hanno precedu­to. Per questa ragione siamo a un bivio, tra il cambiamento necessario, difficile ma non impossibile, e la prosecuzione in un cammino che ci condurrebbe alla disfatta, di cui però molti e tanta parte della politica sembrano ignorare la tra­iettoria. L’Europa sta dimostrando di esserci, ma come illudendosi di superare l’emergenza con misure anche robuste e però eccezionali, transitorie, per poi ri­prendere la vecchia strada, heri dicebamus, solo con i cambiamenti strettamente necessari a evitare il precipizio nella recessione. Ignorando il riprodursi della crisi e, soprattutto, senza inoltrarsi nel cambiamento […].

Ancora una volta il capitalismo mostra un grande adattabilità a fronteg­giare la crisi, basti vedere la rapidità con la quale ha indotto all’abbandono dei dogmi che aveva eretto nel tempo dell’austerity. Non è detto che questa volta basti a contrastare la recessione e di sicuro non basta neppure a lenire la crisi sociale che può precipitare, mentre le già intollerabili diseguaglianze si acutiz­zano ancora. Bisognerebbe saper intervenire attivamente sulle contraddizioni, sulle ambiguità e sulle scelte sbagliate dell’oggi, per ricavarne qualche apertura all’innovazione di qualità e cominciare a guadagnarsi qualche scampolo di un futuro diverso. Anche agendo sul corpo del Recovery Fund, per esempio. Ancor di più agendo criticamente sul rapporto stato-mercato. Per far fronte alla crisi, di fronte alla manifesta impotenza del mercato, è stato ri­chiamato al lavoro il nemico di ieri, lo Stato. Dovrebbe far fronte all’emergenza, per poi ritirarsi e consentire il ritorno del mercato, quando gli sarà vantaggioso. Bisognerebbe farsi guidare da una famosa formula di Willy Brandt, quando disse che la socialdemocrazia non è l’officina di riparazione del capitalismo. Ecco biso­gnerebbe dire che lo Stato non è l’officina di riparazione del mercato e comincia­re a rivendicarne un ruolo strategico e un intervento diretto nella riconversione dell’economia. Sembra lontano il tempo delle riforme di struttura e invece il loro è il tempo del presente e del futuro prossimo, a potercela fare.

Ma, come sem­pre, e ancor più nella crisi, per farcela, per costruire soggettività critica e forza, è necessario saper partire da una critica pratica dell’economia, cioè dall’organiz­zazione degli obiettivi costruiti sull’analisi partecipata dei bisogni. Il lavoro, i la­vori, la vita di lavoro, la vita tout-court sono i terreni deputati dell’inchiesta, oggi di un’inchiesta sulle condizioni delle popolazioni, delle comunità e delle persone nella crisi. Non per una impossibile riunificazione sociale, ma per una possibile e necessaria ricomposizione delle diversità sfruttate e alienate. Il salario torna a essere una possibile leva di azioni collettive. Salario, diretto, indiretto, differito. Salario minimo, salario “operaio”, salario sociale, reddito di cittadinanza, fino al tema enorme del “reddito universale”. Una drastica e diversa distribuzione del reddito è urgente, questione di oggi. Come di oggi, di ieri e di domani, è la riduzione d’orario, una rivoluzione nel rapporto fra i tempi di lavoro e la vita. La questione, meglio la rivendicazione, è assolutamente irrinviabile, se non ci pensa il movimento dei lavoratori resta solo la pratica disperante dell’impresa.

Basti dire che oggi, secondo una recente inchiesta statunitense, con il lavoro a distan­za si lavora mediamente tre ore in più delle storiche otto ore di lavoro. Mentre proprio il ricorso alle nuove tecnologie, fino all’intelligenza artificiale, nel lavoro come nella vita sociale, come in quella privata, ci spalanca davanti il grande tema dell’autogoverno, dell’autogestione contro ogni forma di sorveglianza, di nuovo dominio. Ancora una volta Papa Francesco: “Non abbiamo ascoltato il grido dei poveri e del nostro pianeta gravemente malato!” Vale ancor più per la politica.

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