di Norma Rangeri - Il Manifesto - 27.01.2020

Era una sfida difficile e sembrava in parte scontata. Era uno scontro politico nazionale e non locale. Era quasi un referendum tra un governo in carica e un capobastone che reclama tutto il potere per se. Questa è la partita che si è giocata ieri e che da domani, specialmente se il distacco delle prime proiezioni fosse così largo, potrebbe rafforzare la coalizione di governo e indebolire fortemente la peggiore destra della Storia italiana.

Se dunque la misura clamorosa dei risultati verrà confermata, ad essere strappato è il manifesto vincente dell’uomo del Papeete, che ha messo sul tavolo tutta la posta del suo patrimonio elettorale. Radicalizzando lo scontro, alzando la pressione fino al manganello mediatico più vieto e vecchio dei feroci «comunisti che mangiano i bambini».

In Emilia Romagna il Pd e la sinistra camminavano in salita, negli ultimi anni sempre regredendo, sia nei voti regionali che in quelli nazionali (2014-2018). E grazie al contributo delle incredibili sardine, che hanno riportato in piazza e ai seggi un popolo rinchiuso nell’astensionismo, mobilitando decine di migliaia di persone, il Pd è tornato a fare argine nella battaglia contro la valanga fascioleghista.

Nelle piazze delle città toccate dalle mobilitazioni si sono sviluppati gli anticorpi democratici, l’affluenza è quasi raddoppiata, si è messo in moto un vero e proprio risveglio civico. E non va sottovalutato l’impegno sull’accoglienza sviluppato dalla chiesa bergogliana del cardinale Zuppi.
Naturalmente la vittoria di Bonaccini è un balsamo per il Pd protagonista di tante, meritate sconfitte. Il presidente della regione incassa il maggior dividendo perché la sua lista ha trainato il consenso, e poi perché ha azzeccato la campagna evitando la nazionalizzazione del voto. Il segretario Zingaretti certo se ne avvantaggia, ma di riflesso.

Una parte del merito per lo scongiurato pericolo va riconosciuto, nonostante tutto, anche ai 5Stelle. Che evidentemente hanno praticato l’obiettivo del voto disgiunto dimostrando di ragionare politicamente e di aver capito che la campana delle sardine suonava anche per loro. Una sconfitta di Bonaccini gli si sarebbe rovesciata addosso dopo la scelta dissennata di presentare proprie liste quando i vertici del Movimento, da Di Maio a Fico a Grillo, avevano consigliato di saltare un giro per capire, con l’appuntamento degli Stati generali, chi sono, quale governo vogliono e per fare che cosa. Non aver neppure giocato apertamente la carta del voto disgiunto aggiungeva benzina su un fuoco autodistruttivo rispetto alle conseguenze sul governo nazionale e, quel che più conta, sul futuro del paese.

Ora il governo Conte, appena uscito dal tunnel della legge di bilancio, è rafforzato dal voto emiliano contro cui si è infranto l’assalto della Lega. E le destre devono rinfoderare la spada dell’affondo contro il presidente del consiglio. Battere ora il tamburo del potere al popolo cioè delle elezioni anticipate sostenendo che la Lega, Fdi e Fi ne avrebbero diritto perché governano la maggior parte delle Regioni italiane, è un ritornello che comincia a stonare. Gli andrebbe peraltro ricordato che anche nel 2008, durante il Berlusconi-quater, la maggioranza delle Regioni era governata dai «comunisti».

Per fortuna la Costituzione non è cambiata e neppure la democrazia parlamentare, dunque non c’è alcun nesso tra governi locali e governo nazionale. Il problema è e resta politico, riguarda cosa la coalizione è in grado di opporre e proporre rispetto alle destre. Non avevamo certo bisogno di ulteriori prove a carico per capire cosa sono capaci di scatenare nella società, ma sicuramente lo squadrismo salviniano, tratto saliente di questa campagna elettorale, ha rafforzato l’impegno democratico per sbarrargli la strada: verso palazzo Chigi e verso il Quirinale.

Immagine di Francesco Pierantoni - https://www.flickr.com/photos/tukulti/49184764152/in/album-72157712105706816/, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=84736456

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