di Roberto Bertoni.

So che ragionare su temi che potrebbero essere quasi considerati d'élite, in un momento così difficile e delicato, può sembrare inopportuno, comprendo l'obiezione. Fatto sta che secondo me il vero rischio che corre il Paese non risiede tanto nella crisi legata al crollo di credibilità cui siamo soggetti da quando si è insediato questo governo né dal giudizio sostanzialmente negativo delle agenzie di rating e degli organismi internazionali in merito alla nostra manovra e alle fosche prospettive che essa lascia presagire. Il vero rischio, in questo Paese, è che si sia ormai smarrito il senso del limite, che la barbarie abbia preso il posto del buon gusto, che il buonsenso sia appannaggio di psempreochi uomini di cultura  più messi in discussione e che la moltitudine non consideri gravi comportamenti ed espressioni che invece lo sono eccome.
Del resto, cos'altro aspettarsi da una Nazione che da quasi quarant'anni è soggetta alla rivoluzione culturale berlusconiana, iniziata sul finire dei Settanta con Telemilano 58, la futura Canale 5, e giunta poi al governo, senza mutare né forme espressive né protagonisti, semplicemente trasformando i vecchi venditori di format televisivi in parlamentari e ministri? Cosa aspettarsi da un Paese in cui il berlusconismo ha avuto, al di là delle battute, la stessa funzione che ha avuto l'hegelismo a livello filosofico, forgiando un'intera generazione a propria immagine e somiglianza e plasmando radicalmente le varie correnti di pensiero che ad esso si sono rifatte?
Cosa è stato, in fondo, Berlusconi se non una grande icona pop, capace di informare di sé tanto la destra quanto la sinistra e finanche il M5S, con Renzi e Salvini figli diretti delle sue televisioni e Di Maio frutto amaro della disintermediazione populista, dell'attacco costante ai sindacati e ai corpi intermedi, della condanna senza appello dei partiti e della funzione di mediazione e compensazione un tempo propria del Parlamento e oggi, ai tempi della democrazia digitale, di fatto sconosciuta alla nostra classe dirigente?
Berlusconi in politica, al pari di Hegel in filosofia, ha segnato in maniera indelebile una fase storica, condizionando anche le successive e, di fatto, uscendo di scena nel momento in cui l'intera scena era caratterizzata dai suoi dettami, dal suo linguaggio, dal suo modo di pensare, di parlare e di comportarsi, il che lo ha reso ormai inutile ma, al contempo, ne ha sancito l'apoteosi.
Berlusconi, lo scrivo col dolore di uno che lo ha contrastato per quasi vent'anni, ha vinto su tutta la linea. Ha vinto perché si è rivelato assai più capace dei suoi avversari, ha vinto perché ha compiuto una costante opera di egemonia culturale, ha vinto per mancanza di un'opposizione all'altezza, ha vinto grazie ai suoi soldi e al suo strapotere mediatico, ha vinto perché è stato più abile degli altri a intuire le conseguenze del post-'89 e ha vinto, infine, perché ha saputo galleggiare in ogni stagione, comprese quelle che, sulla carta, gli sarebbero dovute essere ostili.
Berlusconi vince ancora e vincerà a lungo per il semplice motivo che berlusconiani ormai sono tutti i protagonisti che si agitano sul proscenio della nostra non politica, i quali la politica vera non sanno neanche cosa sia, il confronto democratico lo hanno al massimo letto sui libri, i più colti, e la passione civile non l'hanno mai veramente respirata, se non in qualche effimera fase movimentista prontamente stroncata dall'incapacità di dialogo e dagli errori esiziali del fu centrosinistra.
E allora il vero rischio che corre l'Italia è che si realizzi la profezia di Alberto Arbasino, ossia che diventi un "paese senza": senza cultura, senza identità, senza coraggio, senza futuro, con una storia lunga e gloriosa alle spalle di cui ormai hanno contezza unicamente le classi colte e benestanti che, tuttavia, sembrano a loro volta narcotizzate, rassegnate, assenti quando non, peggio ancora, vendute al miglior offerente, dunque apatiche, silenti e contrarie al compito stesso che dovrebbero svolgere gli intellettuali.
Il vero rischio che corriamo è quello di vivere in un rapporto malato fra un capo che cambia di volta in volta, senza mai cambiare veramente copione, e una folla che applaude uno dopo l'altro i vari pseudo-leader che le promettono l'impossibile, in una sorta di riproposizione del "Sol dell'avvenire" senza la tensione etica che contraddistinse chi nel comunismo ebbe la forza di crederci fino in fondo e per questo, il più delle volte, pagò un prezzo altissimo.
Il rischio è quello di annegare in una melassa di conformismo, in una palude di termini insulsi, di espressioni idiote, di incivili gazzarre da salotto televisivo che altro non sono che recite rozze e cialtrone di una sceneggiatura scritta malamente da altri e volta a ingannare, sfruttare, umiliare e rendere prigioniero quel popolo cui tutti si appellano ma che nessuno o quasi veramente rispetta.
Il rischio è quello di essere tornati inconsapevolmente fascisti, di essersi rassegnati al declino, al degrado, ad una sconfitta collettiva senza precedenti.
Il rischio è quello di non avere più nulla da dire e di essere pronti ad abbracciare l'uomo forte, chiunque esso sia, per mera resa culturale, per l'assenza lampante della benché minima volontà di reagire, per questo lasciarsi vivere che ormai ha contagiato anche le poche teste pensanti rimaste, con le sole eccezioni di coloro che sono disposti ad affrontare l'irrisione e l'emarginazione continua pur di difendere le proprie idee.
Il rischio è di non avere più alcuna idea, di non essere più nulla, di perdere senza averci neanche provato, di smettere di combattere, di creare, se possibile, una futura classe dirigente addirittura peggiore di quella attuale, ancora più gretta e presuntuosa, priva di valori e auto-centrata, intenta unicamente a conquistare il potere per perpetuarne i riti e le abiezioni.
Il rischio è che a nessuno o quasi vada più di provare a cambiare qualcosa, nemmeno le peggiori ingiustizie, nemmeno ciò che proprio non è accettabile, e questa è già una forma di fascismo, la peggiore di tutte, la stessa omertosa pratica che strangola le ampie zone d'Italia soffocate dal malaffare e della convinzione che nulla possa cambiare.
Il rischio è il gattopardismo elevato, al pari del precariato, a condizione esistenziale comune a molti e condizionante anche nei confronti di chi non vorrebbe lasciarsi avvinghiare dalle sue spire.
Personalmente, vedo un'Italia che sta tornando fascista senza neanche rendersene conto, o rendendosene conto e beandosi di questa condizione. E non vedo nessuno, almeno tra coloro che ricoprono incarichi dirigenziali, che voglia davvero contrastare questa tendenza. Da qui il disincanto, l'astensionismo, la sensazione che tutto sia inutile e ogni sforzo vano. Da qui la necessità assoluta, non più rinviabile, di provare a fare qualcosa, di impegnarsi, di fare politica in ogni modo e con la massima convinzione, se non altro per non essere tormentati un giorno dai rimpianti.

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