di Michele Prospero - Il Manifesto - 07/03/2018

Queste elezioni sono la prosecuzione del referendum del 4 dicembre su un nuovo fronte. L’avversario è lo stesso di allora. La rivolta ha la medesima ragione: il popolo, nella sua maggioranza, non sopporta di avere Renzi in posti di responsabilità.
Cerca di dirlo in ogni modo, ma la risposta è la medesima: dimissioni finte, nel disprezzo più completo del pubblico pronunciamento. Non ha tratto le conseguenze dovute dopo un plebiscito che lui stesso aveva inventato. Non prende adesso le misure inevitabili per aver portato al tracollo storico il proprio partito. Cos’altro, se non la nichilistica carica distruttiva, ci si poteva attendere da chi per ideologia ha la rottamazione?
L’ONDA ANTIRENZIANA era così forte nel paese che anche le alternative tentate a sinistra del Pd sono state ridimensionate perché ritenute timide e nel complesso poco efficaci nel dare la lezione meritata all’arrogante potere fiorentino. Il chiacchiericcio sul governo di scopo ha confermato nell’elettorato la sensazione che per strappare il sistema occorresse votare per il M5S. Gli attori nuovi erano giudicati titubanti, con proclami sul senso estremo di responsabilità e con una volontà di riannodare i fili di un centro sinistra che non esisteva più e che era avvertito come il problema, non certo come la soluzione. Un voto al M5S era percepito come il contenitore di un più sicuro effetto: una valenza anti-sistema di chi reagiva alla provocazione quotidiana dei media che tendevano a persuadere l’uditorio che era iniziata la magnifica stagione della ripresa, con una crescita sensazionale, con una disoccupazione ormai sconfitta.
IL SUD ABBANDONATO, le periferie senza alcuna speranza hanno inteso reagire al regime del falso che ha avuto nei servizi dei Tg o in conduttori militanti i sacri sacerdoti. Per reagire al regime della falsificazione permanente, in tanti si sono recati ai seggi e hanno dato il voto non a persone, a candidati, a nomi. Hanno voluto graffiare il potere con la scheda che più procura dolore. Quella al simbolo del M5S ha avuto il significato di un investimento: nessun’altra espressione di volontà era più capace di rottura rispetto alla narrazione narcotizzante. La presentazione della squadra di governo degli sconosciuti non ha inciso quanto la reazione al disegno di cancellazione del movimento tentato dai poteri.
Quando tutti i media del potere hanno inscenato ridicoli processi sulla questione degli scontrini e dei rimborsi, hanno scavato ancora più profonda la fossa del governo. I persuasori palesi hanno determinato lo stesso meccanismo difensivo che, nelle europee svoltesi dopo i fatti di Tien An Men, portarono molti voti al Pci, che, in una volontà di annientamento, era stato aggredito dalla stampa anche con la manipolazione di una lettera di Togliatti.
LA SECONDA RAGIONE DEL TRIONFO del M5S è in un misto tra volontà di protezione sociale e un desiderio di resistenza a una destra che nella sua penetrazione territoriale portava il vento del nord. Chi mette sullo stesso piano M5S e Lega dice cose non vere. A nord molti voti del M5S sono passati alla Lega e il tentativo di fornire un’alternativa al nanocapitalismo leghista con una rete di imprese vicine alla Casaleggio è fallito. Nel sud invece il M5S cresce anche come efficace argine alla conquista di Salvini, che ha adottato una simbologia di destra ma che è pur sempre capo di una forza del nord. La Lega è il referente di un’Italia della piccola impresa, che viene sedotta dalla prospettiva della tassazione minima, di condizioni operaie e impiegatizie umiliate dalla legge Fornero e poi è il veicolo di rassicurazione dei ceti popolari mobilitati dalla politicizzazione della paura. Il timore del vento del nord, che promette meno tasse per i ricchi e dunque ancora meno Stato e diritti per i ceti impoveriti, spiega anche la repentina metamorfosi del voto siciliano rispetto alle regionali di alcuni mesi fa. Il M5S, con la sua parola mobilitante del reddito garantito, è apparso come il sindacalista del centro-sud, la sola formazione capace di contestare le esclusioni, i costi sociali della crisi.
PIÙ CHE DESTRA E SINISTRA sono due Italie che emergono, in una riesplosione della differenziazione territoriale come male oscuro che la decomposizione delle regioni rosse aggrava di molto. A differenza che nel 1976, i due vincitori non possono tra loro venire a patti: la Lega perderebbe il reddito garantito della leadership della coalizione di centro destra. Il M5S vanificherebbe il controllo di un’area di sinistra che al non-partito si rivolge tramutandolo di fatto, almeno sociologicamente, in una variante italiana di Podemos. Una parte del Pd, che è in attesa di ulteriori e inevitabili frantumazioni, e la sinistra, che ha comunque superato la prova di sopravvivenza, consapevoli della loro dimensione per ora minoritaria, non possono sottrarsi alla aspettativa di svolta che il voto ha così fortemente espresso.

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