di Maria Pellegrini.

La schiavitù ha accompagno l’intera storia dell’umanità, dalle origini ai nostri giorni. Nella Grecia dell’età del bronzo già esisteva come provano alcune tavolette e gli schiavi sono presenti nei poemi omerici. Da Omero alla conquista romana era accettato che il vinto appartenesse al vincitore in base all’esistenza di una legge universale che legittimava l’asservimento dei vinti in guerra. Non fu contrastato neppure da quei filosofi che credevano nella fratellanza umana (Cinici e Stoici). La formulazione più chiara è quella di Senofonte, discepolo di Socrate: “Se una città è conquistata in guerra, i corpi degli abitanti e i loro beni appartengono al vincitore”. Ciò valeva anche per il più grande sistema schiavistico che la storia abbia mai conosciuto, quello di Roma antica. Dalla metà del III secolo a. C. alla fine del I secolo d. C. Roma fu coinvolta in continue guerre espansionistiche. Storici come Polibio e Livio danno spesso dettagli sul numero di prigionieri catturati dai generali romani vincitori. L’intera economia della società era basata sullo sfruttamento della forza-lavoro di milioni di individui, privi di libertà e di ogni diritto, che all’apogeo dell’età imperiale costituivano il dieci per cento della popolazione, dai sei ai dieci milioni di schiavi utilizzati per realizzare anche tutte quelle meraviglie dell’architettura monumentale di Roma al tempo della repubblica e poi dell’impero. Ancora nel III secolo d. C. quando la dottrina di Cristo diffondeva un messaggio di uguaglianza degli uomini, il giurista Marciano affermava: “Per il diritto delle genti sono nostri schiavi coloro che sono stati catturati in guerra e coloro che nascono dalle nostre schiave”.

Una mostra all’Ara Pacis visibile fino al 7 giugno, “Spartaco. Schiavi e padroni a Roma”, testimonia la condizione di vita degli schiavi attraverso duecento reperti archeologici provenienti da musei italiani e stranieri affiancati da una selezione di fotografie, installazioni audio e video. I temi affrontati sono l’età delle conquiste che vede i Romani vincitori e i vinti resi schiavi; la rivolta di Spartaco e la sua sconfitta; il mercato di schiavi fiorente in tutto il Mediterraneo; la condizione di coloro che lavorano nelle case dei padroni, nei campi, nelle cave e nelle miniere; la schiavitù femminile e lo sfruttamento sessuale; gli schiavi bambini; le varie attività esercitate: la prostituta, il gladiatore, l’auriga, l’attore, il medico, il chirurgo. Nella mostra si possono ammirare oggetti di uso quotidiano e, tristi a vedersi, le catene: poste alle caviglie per impedire la fuga, sono uno strumento che ben rappresenta la condizione schiavile. Un compito più nobile era quello del pedagogo, spesso proveniente dalla Grecia e di particolare cultura che istruiva i rampolli degli aristocratici. Una sezione della mostra è dedicata alla “manumissio”, l’atto giuridico con il quale si affrancava uno schiavo, vera e propria occasione offerta dal diritto romano ai più meritevoli o a quelli che erano riusciti, con i loro risparmi, a comprare la propria libertà. Chiudono il percorso i contributi forniti dall’International Labour Organization, l’agenzia dell’Unesco impegnata nella lotta alle forme più diverse della schiavitù contemporanea, che mostrano situazioni odierne analoghe a quelle dell’antichità.

Come si è detto il contributo maggiore alle scorte di schiavi era la guerra: Emilio Paolo dopo la sua vittoria a Pidna nel 168 a. C., mise in vendita 150.000 schiavi e Giulio Cesare dopo la conquista della Gallia nel 51 a. C. in una sola volta 53.000. Poi fu organizzato il commercio degli schiavi che passavano da un padrone all’altro con notevoli profitti di chi svolgeva questa attività. Il mercato di merce umana era considerato “fonte di approvvigionamento” come un bene necessario. Le persone erano considerate alla stregua di mercanzia da importare ed esportare e per chi volesse procurarsi schiavi bastava comprarli, in tutti i centri cittadini del dominio romano esistevano mercati Nella stessa Roma ve ne era uno vicino al tempo di Castore. Il più famoso era quello di Delo, isola dell’Egeo, dove secondo il geografo Strabone, talvolta erano venduti fino a 10.000 schiavi al giorno, procurati dai pirati. La pirateria, fino a quando non fu soffocata, al tempo di Augusto, razziava uomini e donne lungo le coste di tutto il Mediterraneo e riforniva i mercanti.

Una fonte per accrescerne il numero o quanto meno, mantenerlo costante in seguito alla morte di molti dovuta a malattia o a vecchiaia, poteva essere la naturale riproduzione. Poiché il figlio di uno schiavo rimaneva schiavo anche lui, i padroni avevano tutto l’interesse che le schiave generassero prole. Non sempre questo desiderio era però condiviso da chi avrebbe dovuto metter al mondo figli senza una famiglia legale e per costringerli alla loro stessa sorte. Inoltre poiché la morte di parto delle donne e la mortalità infantile impedivano una crescita corrispondente al numero delle loro aspettative, gli schiavisti romani non si persero d’animo, ricorsero a speciali “allevamenti” (parola che fa venire i brividi, in quanto usata per gli animali) come strategia alternativa necessaria alla riproduzione.

Il lavoro degli schiavi, sia uomini che donne fu molto utilizzato nell’agricoltura. Attraverso gli scritti di carattere agronomico di Catone, Varrone e Columella possiamo seguire la condizione di vita della manodopera schiavile utilizzata nei campi, sottoposta a orari stressanti, a una alimentazione povera, a punizioni severe. Riportiamo uno scritto di Varrone, veramente illuminante: “Ora dirò con quali strumenti si lavora la terra. Ci sono tre categorie: strumenti parlanti, gli schiavi, strumenti semiparlanti, i buoi, i strumenti muti, quelli inanimati”. Il contadino schiavo non era altro che uno strumento, come una zappa o una vanga, dotato però di parola. Gli schiavi erano impiegati su vasta scala anche nelle miniere; Polibio ricorda che ai suoi tempi (metà del II secolo d. C.) 40.000 lavoravano nelle miniere d’argento presso Cartagena nella Spagna romana.

Nella mostra di cui stiamo percorrendo le varie sezioni, attraverso le immagini e i reperti archeologici possiamo vedere uno spaccato della vita domestica in una casa romana dove esercitavano numerosi schiavi con i ruoli di portieri, parrucchieri, cuochi, sguatteri, fattorini. Certamente erano i privilegiati. Lo stare al contatto con i padroni, se ci si comportava con disciplina e obbedienza, portava a una certa confidenza e talvolta a riconoscenza premiata con l’affrancamento.

Tra il 135 e il 71 a.C. tre generazioni di schiavi si ribellarono alla Repubblica. L’episodio più noto è quello del 73 a. C. quando ci fu la terribile e sanguinosa rivolta diretta da due uomini di straordinario valore militare e di eccezionale carisma, Spartaco, un cittadino della Tracia catturato in combattimento contro gli invasori romani, e Crisso, forse un gallo insubre di straordinaria forza fisica e di un’implacabile voglia di vendetta, causata dalla strage della sua intera famiglia perpetrata dai legionari romani durante la guerra gallica, voluta e vinta da Giulio Cesare. I due capi indiscussi della rivolta che atterrì l’intera Italia, erano in disaccordo fra loro, soprattutto sull’obbiettivo finale della sollevazione: Spartaco affermava la necessità di combattere al fine – se l’esito fosse stato vittorioso – di tornare ognuno nelle proprie case e nei luoghi di origine, Crisso, che non aveva più un luogo dove tornare, né casa, né parenti, sosteneva la teoria della devastazione assoluta, di restare in Italia con l’unico scopo della vendetta e del massacro senza pietà di tutti coloro che li avevano catturati. Nessuna delle due mète poté essere raggiunta: al nord il console romano Pompeo intercettò i rivoltosi e li massacrò quasi tutti in battaglia. Al sud fu l’altro console Crasso a eliminare più della metà dei rivoltosi, e volle atrocemente infierire sul resto che egli riuscì a catturare facendone crocifiggere sei mila 6.000, spaventoso e lugubre spettacolo per chiunque camminasse lungo la via Appia che portava a Roma.

Le condizioni di vita della merce umana durante i lunghi viaggi per terra e per mare possono essere immaginate considerando anche che erano incatenati durante il trasporto e colpiti da malattie, malnutrizione e mortalità. La sorte di quell’umanità sradicata dai luoghi d’origine, spesso destinata a morire prima di arrivare nel paese di destinazione, ci riporta ai migranti dei nostri giorni.

Schiavi di tutte le nazionalità, che non trovavano subito accoglienza in case private o nei grandi latifondi dei proprietari terrieri, vivevano negli “ergastula”, sparsi in varie città d’Italia (facile l’accostamento ai moderni centri di accoglienza dei migranti). Famosa la città di Capua, uno dei luoghi di raccolta di questi sventurati “dannati della terra” destinati alle orrende festività del Circo, come carne da macello negli spietati combattimenti, spesso contro belve innocenti. Non ci si deve stupire se esseri umani strappati alle loro famiglie e alle loro case, ridotti in assoluto potere dei dominatori romani, talvolta si ribellarono e dettero sfogo alla loro rabbia repressa, piuttosto dobbiamo considerare che la schiavitù, è l’infame vergogna, una macchia indelebile, che pone in dubbio l’idea della gloriosa grandezza dell’Impero romano.

Roma era senza dubbio uno stato imperialista aggressivo e spietato, non meno dei soldati blu del nord-America, massacratori del popolo pellirossa. “La storia di Roma” scrive Luca Canali “cominciò con un omicidio alla fondazione, e una razzia di donne sabine rapite per farle figliare futuri legionari romani invasori di tutta l’Europa centro-meridionale e di parte dell’Africa del nord”. Quasi per riscattare tutte le infamie commesse, il grande latinista, studioso della letteratura e della civiltà romana, aggiunge “Ma Cesare era un genio, Cicerone uno dei padri del Diritto romano, Virgilio un grande e dolcissimo emulo dell’insuperabile Omero, gli architetti romani avevano seminato l’Europa di splendidi acquedotti (grazie alle teorie di Vitruvio) portando la preziosa acqua in tutte le città che conquistavano”.

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