di Roberto Bertoni.

Sono reduce da Cesenatico, dove la scorsa settimana si è svolta la terza edizione della Summer School della Scuola di Politiche fondata da Enrico Letta e intitolata a Beniamino Andreatta. Una quattro giorni ricca di appuntamenti, di idee, di valori, di sogni e di speranze: i sogni e le speranze di una generazione e che, in alcuni casi, aveva dieci anni nei drammatici giorni del settembre 2008 in cui gli scatoloni della Lehman Brothers segnavano l'inizio di una crisi che permane tuttora.
Dieci anni, un tempo pressoché infinito, eppure sembra ieri che stavamo a commentare l'inizio di una catastrofe planetaria che ha posto fine al positivismo strumentale del post-'89 e aperto le porte a scenari apocalittici.
Dieci anni e non ne siamo ancora fuori. Dieci anni nel corso dei quali è cambiato tutto e neanche noi siamo più gli stessi.
Dieci anni, già, e il pensiero va a tutto ciò che abbiamo perso in questo interminabile lasso di tempo che ha posto fine al mondo come lo avevamo conosciuto e privato milioni di persone di ogni certezza.
Dieci anni e la sensazione che nulla sarà più come prima, che nulla di ciò che c'era prima tornerà e che un secolo, il Novecento, si è bruscamente e definitivamente chiuso con l'ingresso in una stagione caratterizzata dalla mancanza assoluta di punti di riferimento.
Dieci anni e ci guardiamo intorno spaesati, mentre partiti, sindacati, associazioni di categoria, i corpi intermedi in generale, e tutto ciò che ruotava intorno al nostro universo valoriale di prima non esiste più.
Dieci anni e la percezione di essere davvero soli sul cuor della Terra, senza che un raggio di sole trafigga i nostri sguardi bisognosi di calore umano, senza un minimo di pietà cui aggrapparsi, senza una prospettiva che sia una, impotenti e fragili in balia di cambiamenti che non lasciano scampo.
Dieci anni e una popolazione globale che chiede protezione e sicurezza, mentre le forze sedicenti progressiste continuano a combattere le loro battaglie terzaviiste inseguendo il modello che andava per la maggiore vent'anni fa, non rendendosi evidentemente conto di essere la prima causa dell'avanzata dei cosiddetti "sovranisti".
A tal proposito, ho visto negli occhi dei ragazzi di Letta, di cui peraltro faccio parte anch'io, e con orgoglio, il passaggio del tempo e della storia: ragazzi che dieci anni fa, in alcuni casi, andavano alle elementari e che, pertanto, non hanno mai conosciuto altro che la crisi e le sue devastanti conseguenze.
Mi sono fermato a parlare a lungo con alcuni di loro, rendendomi conto di quanto sia stato denso questo decennio, di quante cose siano accadute e di quanto sia diverso il mondo rispetto al 2008. Ne ha parlato anche Floris, soffermandosi sulle mutazioni occorse nei talk show, sulla frattura storica che c'è stata fra cittadini e forze politiche, sul senso di smarrimento collettivo che ci caratterizza.
E poi ho riflettuto sul vero protagonista di questo incontro: Aldo Moro, lo statista cui è stata dedicata l'iniziativa, in occasione del quarantesimo anniversario della scomparsa.
Aldo Moro, che nel febbraio del '45 scriveva su "Rassegna", il giornale da lui fondato insieme ad altri docenti universitari e sul quale si firmava Mr: "Ci attende il più grave sacrificio, quello di proclamarci liberi per comodo del mondo, quando liberi non sentiamo di essere. Il nostro posto è all'opposizione, il nostro compito è al di là della politica. Noi non abbiamo aspirazioni a governare. Non vogliamo il potere, perché esso ci fa paura. Potrebbe rendere anche noi conservatori, conservatori, non fosse altro, di una liberta meschina e personale. Potrebbe abituarci al compromesso, potrebbe insegnarci la finzione. E noi vogliamo essere liberi, liberi di tutta la libertà dello spirito. Crediamo di costituire una riserva perenne contro la disperazione dello scetticismo. Proprio perché crediamo alla verità, possiamo farci critici spietati di tutte le false credenze...".
E ancora: "Senza la politica manca all'uomo l'ambiente nel quale costruire il suo mondo, ma se la politica vuole essere tutta la vita, l'uomo è finito e la vita perde la sua chiarezza e ricchezza... Al di là della politica c'è un residuo immenso che rischiamo ancora di sprecare".
E ancora: "Probabilmente, malgrado tutto, l'evoluzione storica non soddisferà le nostre ideali esigenze: la splendida promessa, che sembra contenuta nell'intrinseca forza e bellezza di quegli ideali, non sarà mantenuta. È un dolore che non si placa, se non un poco, quando sia confessato ad anime che sappiano capire, o cantato nell'arte, o quando la forza di una fede o la bellezza dissolvano quell'ansia e ridonino la pace. Forse il destino dell'uomo non è di realizzare pienamente la giustizia, ma di avere perpetuamente della giustizia fame e sete. Mi sembra un grande destino".  
Sulle spalle di questo gigante, di cui oggi, 23 settembre, mentre scrivo quest'articolo, ricorre il centoduesimo anniversario della nascita, la nostra generazione è chiamata a costruire il proprio futuro, a dare un senso alla propria vita, ai propri sogni, al proprio destino, alle speranze di ricostruzione e di rinascita che, proprio come allora, devono animarci.
A Cesenatico ho visto "una nuova umanità che vuole farsi" e la prospettiva di un cammino a lungo termine di cui l'Italia e l'Europa avvertono il bisogno. L'importante sarà non smarrire questo giovanile e magnifico entusiasmo se e quando saremo chiamati ad assolvere responsabilità dirigenziali, politiche o di governo. L'importante è che dal baratro di questa maledetta crisi sbocci un fiore di libertà, senso critico e passione civile. "Che di tutto resti qualcosa".

P.S. Dedico quest'articolo al professor Carlo Dell'Aringa, scomparso lo scorso 18 settembre all'età di settantasette anni. A Cesenatico era con noi, con la consueta cortesia e disponibilità. Gli sono profondamente grato, anche per le volte che ci siamo trovati disaccordo.

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