di Leonardo Caponi.

Come volevasi dimostrare. Alla sinistra del Pd , alle prossime elezioni politiche, non ci sarà, come molti avevano sperato, una unica lista, ma saranno due, limitandosi alle “principali”, oltre, naturalmente al prevedibile florilegio di liste “comuniste” (trozkisti, col loro immancabile e testardo zero virgola qualcosa, probabilmente il movimento di Rizzo – altro zero virgola- e forse chissà chi altri) e a quella dal nome originale, “la mossa del cavallo”, dei duo Ingroia Giulietto Chiesa che, sebbene l’esperienza paia al tramonto, ripropone partiti personali, senza radici e basi comuni, motivati solo da una febbre elettoralistica che divampa a tutto spiano e in tutti i campi.

Ma lasciamo perdere e concentriamoci sulle due offerte maggiori le quali, benché la cosa possa apparire bizzarra, non coprono per intero la domanda elettorale alla quale sono rivolte. I delusi e gli scontenti sono molti e non solo perché, come detto, le liste sono due e non una (obiettivo rivelatosi difficile per divisioni reali, ma non impossibile e al quale i gruppi dirigenti con ben altra volontà e versatilità avrebbero dovuto dedicarsi) ma per i contenuti politico programmatici che le caratterizzano. Per semplificare, l’una lista pare troppo di “destra”, l’altra estremista; manca, insomma, la giusta misura. Risultato prevedibile sarà, con una campagna elettorale nella quale un gran peso avrà il richiamo al “voto utile”, un vantaggio per il Pd renziano, con due formazioni a contendersi in buona parte uno stesso bacino elettorale o comunque a dividersi voti che avrebbero potuto essere sommati al fine di avere una massa critica e una influenza politica superiori non solo e non tanto ai fini dei “numeri” parlamentari, ma dello stimolo in grado di rimotivare un “popolo” sfiduciato, cioè quello di ricostruire in Italia una “grande” sinistra.

Che si può rimproverare alla lista “Liberi e Uguali”, nata dalla fusione tra Mdp, Si e il gruppetto civatiano? Un leader, per quanto stimabile, nominato dall’alto, una persistente ambiguità politica sui rapporti col Pd (col quale non si esclude, dopo le elezioni, la ripresa di una collaborazione) e contenuti di programma “deboli”. In realtà una svolta a sinistra rispetto alle politiche renziane, subalterne o funzionali al liberismo, quale quella che viene rappresentata, presuppone non solo affermazioni generali e generalmente condivisibili, ma misure e pratiche conseguenti (dalla riduzione dell’orario di lavoro, all’abrogazione della legge Fornero, ad una tassazione severa dei super patrimoni, dei super redditi e dei capitali speculativi, alla abolizione del fiscal compact, per dirne alcune) che segnino, implicitamente, anche un distacco (e non invece una rincorsa) da un mitizzato centro sinistra prima maniera che, del resto, ha lasciato così poco rimpianto di se che Renzi ha avuto facile gioco a rottamarne i protagonisti.

La lista, per ora chiamata Potere al popolo, è una “lista di movimento”. Nasce dall’iniziativa di un Centro sociale napoletano e allinea Rifondazione comunista, altre esperienze di base, la platea del “Brancaccio” o parte di essa e forse il nuovo Pci. Si ispira e spera di riproporne il successo, a formazioni e leader radicali che hanno segnato la ripresa della sinistra in Europa e negli Stati Uniti. La situazione italiana è assimilabile a questi ultimi? C’è, per molti motivi, da dubitarne. Il rischio per Potere al popolo è di scambiare per generali esperienze, per quanto valide e generose, comunque parziali e di incappare in un distacco tra radicalità di contenuti e realismo della politica, senza la cui combinazione ogni movimento è destinato all’insuccesso che, nel caso specifico, vorrebbe dire non superare la soglia di sbarramento. Speranze? Che avanzi durante e dopo le elezioni tra le due liste uno sforzo comune di convergenza.

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