di Roberto Bertoni.

Spiace dirlo, ma la Sicilia non c'è più. Nel momento in cui un personaggio come Salvini, che fino a ieri inneggiava dai microfoni di Radio Padania, alla secessione di questa fantomatica entità territoriale dall'Italia, ricoprendo di insulti chiunque fosse nato al di là del Po, sbarca nell'isola e, in compagnia della Meloni, di alleati con dentro un discreto numero di impresentabili e del solito notabilato trasformista siciliano, sbanca la Trinacria, significa infatti che quell'isola non esiste più.
Perché Berlusconi può dire ciò che vuole, può pure ergersi a federatore del centrodestra, può recitare il proprio copione trito e ritrito, con le stesse battute di ventitré anni fa, finché crede ma non è e non sarà più lui il protagonista della politica italiana. Sarà purtroppo indispensabile per costituire qualsiasi governo nella prossima legislatura, questo sì, visto che il segretario fuggente del PD e il leader inadeguato dei 5 Stelle sono riusciti a resuscitarlo e a renderlo, a tratti, finanche convincente; tuttavia, i veri simboli di questa nuova stagione della politica italiana sono Matteo Salvini e Giorgia Meloni, gli unici due politici puri rimasti sulla scena, benché scontino entrambi un'eccessiva territorialità che si percepisce anche dall'accento. Fatto sta che se la romanissima Meloni e il milanesissimo Salvini dovessero davvero riuscire a formare un'unica lista, non è da escludere che possano sfiorare, a livello nazionale, la vetta del 20 per cento. Quanto a Berlusconi, gli va dato atto di aver imparato a fare il regista: da quando la legge Severino lo ha reso incandidabile e l'ultimo PD degno di questo nome ne ha sancito la decadenza da senatore, non c'è dubbio che, nella legislatura dei leader extraparlamentari, se la sia cavata meglio dell'inaffidabile Grillo e dello scolaretto Renzi.
E così, potrebbe persino accadere che l'ex Cavaliere, per interposto Tajani o giù di lì, dia le carte da una posizione di forza, costringendo o gli scomodi alleati del centrodestra o il Partito di Renzi ad attenersi alle sue decisioni, in quanto ago della bilancia di ogni futura maggioranza di governo.
Politicamente parlando, è un capolavoro di tattica e strategia, agevolato senz'altro dal fatto che i rivali ne siano completamente sprovvisti ma anche, va detto, dalla lucidità d'analisi e di pensiero di un personaggio che è sempre bene non sottovalutare.
Quanto alla sinistra, è giusto compiere una riflessione critica sulla candidatura di Claudio Fava. Sono oltre vent'anni, infatti, che la sinistra ha progressivamente rinunciato al radicamento territoriale, un tempo suo punto di forza, sostituendolo con dei testimonial di prestigio che affascinano molto la parte più colta e politicamente impegnata della popolazione ma dicono poco o nulla al resto del Paese.
Basti pensare alle sconfitte di personalità di altissimo livello come Nando Dalla Chiesa a Milano e Rita Borsellino alle primarie di Palermo e alle Regionali in Sicilia: l'ottimo Claudio Fava, da questo punto di vista, non fa eccezione.
La sinistra, dunque, dovrebbe trarre da questo risultato non soddisfacente la lezione che candidature in stile Grasso vanno benissimo a livello nazionale, quando il voto d'opinione ha la sua importanza e personalità di un certo calibro, provenienti dal civismo, è non solo giusto ma direi addirittura doveroso coinvolgerle. Quando si tratta di elezioni territoriali, invece, serve altro. Nella melma di territori devastati dal malaffare, dell'arretratezza e dalla disperazione sociale, un intellettuale come Fava, che oltretutto non vive nemmeno in Sicilia, viene percepito per ciò che realmente è: una limpida candidatura di bandiera.
Peccato che, nonostante l'esito del referendum dello scorso 4 dicembre, lo spirito del maggioritario si sia ormai conficcato nella testa degli italiani. Pertanto, l'importanza di una candidatura che si richiama ai cento passi di Peppino Impastato e al meglio dell'esperienza civica siciliana nella lotta contro la piovra mafiosa, coinvolgendo anche la storia personale di Fava e della sua famiglia, viene avvertita come una necessità dalla piccola minoranza che gli ha accordato la propria fiducia; gli altri, quando decidono di recarsi alle urne, non scelgono il candidato migliore ma il meno lontano dalle proprie idee e dalle proprie esigenze o, come in questo caso, quello che aveva più possibilità di vincere.
Non c'è un'altra spiegazione plausibile allo scarto di voti tra il M5S, primo partito con circa il 28 per cento dei consensi, e il suo candidato Cancelleri, ben oltre il 30 per cento. I potenziali elettori di Fava hanno preferito il male minore per provare a scongiurare sia un Nazareno in salsa siciliana sia un centrodestra a trazione lepenista. Se ci pensate, non sarà un ragionamento idealistico ma ha una sua logica. Si è trattato, in poche parole, dell'eterno ritorno del voto utile: una pratica che, in tempi caratterizzati da partiti senza capo né coda e da un contesto sociale liquido, per non dire liquefatto, ha una sua inoppugnabile validità.
Meglio, quindi, per il futuro affidarsi a figure meno nobili di Fava ma che anche un frequentatore del mercato rionale di Caltanissetta possa sentire vicine: uno come il sacerdote che la sinistra ha sostenuto a Ostia, per dire, va benissimo e, non a caso, ha ottenuto un 8 per cento di voti che fa ben sperare in un municipio dilaniato dalla criminalità organizzata e costretto ad assistere ad un ballottaggio, fra due settimane, tra la candidata della Meloni e del centrodestra e quelle dei 5 Stelle, con CasaPound possibile ago della bilancia.
A proposito di CasaPound, lasciatemi dire una cosa molto fastidiosa e impopolare ma senz'altro vera: va bene commemorare Anna Frank, va bene la legge Fiano, va bene tutto, ma il fascismo non si combatte a parole o con aulici proclami bensì impedendo che vengano a crearsi le condizioni che ne generano l'ascesa.
Come spiegava Montanelli, non fu il fascismo a uccidere la democrazia negli anni che seguirono il primo conflitto mondiale: essa si suicidò a causa della perdita di credibilità del notabilato liberale e del progressivo peggioramento delle condizioni di vita di milioni di persone e il fascismo provvide a seppellirla con i metodi che ben conosciamo.
Allo stesso modo, a Roma non sono destra e 5 Stelle a vincere ma il centrosinistra a non esistere più da diversi anni, a causa della propria rinuncia a fare politica in cambio della mera gestione del potere, con tutto ciò che una scelta del genere comporta, certo, ma anche per via della brillante idea renziana di cacciare via un sindaco regolarmente eletto a colpi di firme dal notaio. Spiace doverlo far presente ai vertici del PD, ma neanche un buon candidato come l'ambientalista Athos De Luca, in queste condizioni, può opporsi al disastro ampiamente previsto.
Ed eccoci al PD, e qui c'è davvero poco da dire. Di Orfini e Faraone e delle loro sparate preferisco non occuparmene: non meritano attenzione,
Quanto a Renzi, il suo bilancio è il seguente: ha risuscitato Berlusconi, sconquassato e reso impraticabile la formula del centrosinistra, almeno fino a quando si ostinerà a rimanere alla guida del partito, perso pressoché ovunque, lacerato l'italia con una riforma costituzionale prontamente respinta da quasi venti milioni di cittadini, ingrossato le fila dei 5 Stelle, provocato un clima di costante tensione che ha indotto finanche una figura istituzionale come Grasso ad abbandonare il PD, speso non si sa quanti milioni di euro per perdere malamente il suddetto referendum e speso ora quattrocentomila euro per andare in giro in treno mentre i dipendenti del partito sono finiti in cassa integraziobe, varato a colpi di fiducia una legge elettorale dichiarata poi incostituzionale dalla Consulta e perseverato di recente con il Rosatellum, rotto il rapporto con quasi tutti i sindacati e con l'intero mondo della scuola, introiettato il populismo grillino e finanche alcuni tratti di salvinismo, con l'ovvio risultato di favorire entrambi i contendenti, consentito a Di Maio di umiliarlo pubblicamente, sancendo di fatto la sua irrilevanza politica, e fatto sì che la metà dei fondatori del partito di cui è segretario preferissero andarsene o non rinnovare la tessera. Senza contare il capolavoro compiuto sulla RAI, dove prima ha imposto manu militari Campo Dall'Orto, dotandolo di poteri mai avuti da nessun predecessore, compresa la qualifica di amministratore delegato anziché direttore generale, poi gli ha addossato la colpa della sconfitta referendaria e infine lo ha fatto sostituire con Orfeo dal fido Gentiloni: nel frattempo, hanno abbandonato l'azienda personalità come Floris, Giannini, Milena Gabanelli, Giletti, Andrea Salerno e la squadra di Gazebo; in compenso, fanno furore le sorelle Parodi, Carlo Conti e Costantino della Gherardesca, noto sostenitore del SÌ al referendum. Sull'Unità ed Europa stendiamo un velo pietoso; di Democratica non ne parlo perché so a malapena cosa sia.
Di fronte ad un bilancio del genere, abbiamo persino commentatori che ancora fingono di bersi la favoletta del PD unico argine al populismo, chiedendosi quasi con sdegno perché qualcuno, a sinistra, ponga come condizione per riallacciare un dialogo con il PD che questo eroe dei due mondi dia seguito alla promessa fatta, e purtroppo non mantenuta, ai tempi del referendum costituzionale.
Venendo ai 5 Stelle, posto che il risultato siciliano è, tutto sommato, positivo, Di Maio tuttavia qualcosa rischia, in quanto Cancelleri era un candidato a sua immagine e somiglianza e non ce l'ha fatta, a dimostrazione che un movimento che, anche se non lo ammetterà mai, nasce sostanzialmente a sinistra, quando cerca di buttarsi a destra, finisce col favorire l'originale. State pur certi, quindi, che i falchi duropuristi adesso tacciono ma al momento compilazione delle liste elettorali, e ancor più dopo le Politiche, faranno pesare eccome il proprio dissenso nei confronti della linea imposta dalla Casaleggio Associati versione Davide.
Infine l'astensione: una piaga sulla quale nessuno sembra aver voglia di riflettere, come se davvero un candidato eletto da circa il 20 per cento sostanziale degli aventi diritto al voto potesse avere, poi, la forza e la credibilità necessarie per affrontare i drammi di zone difficili come Ostia o la Sicilia nel suo insieme.
Finché il PD ha vinto per mancanza di avversari, quei simpaticoni dei suoi dirigenti ci hanno risposto che l'analisi dell'astensione era materia da sociologi e non da politici o da politologi; ora sperano che ad astenersi siano gli elettori altrui, essendo antropologicamente impossibilitati a comprendere la necessità di un minimo di autocritica.
L'isola non c'è più, Ostia nemmeno, l'italia chissà e i fascisti sfiorano il 10 per cento: direi che è proprio l'ora di andare a seguire il fondamentale dibattito fra l'ego di questo e quel leaderonzolo, con annessa foto opportunity e magari, perché no, anche un bel selfie!

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