di Maria Pellegrini.

Seneca è uno dei personaggi più complessi, contraddittori dell’intero mondo latino. Studioso appassionato, filosofo, indagatore della psicologia umana e dell’intera società, predicatore dei semplici costumi, ma uomo di sterminate ricchezze, debole durante l’esilio, forte di fronte alla morte impostagli da Nerone, amante della solitudine, ma a lungo impegnato nella vita politica ai massimi livelli e assertore della “ragione di Stato” - sembra addirittura che sia stato lui a consigliare a Nerone di sopprimere l’imperatrice-madre che voleva continuare a esercitare il potere supremo imponendo al figlio la sua volontà -. Per di più fu scrittore infaticabile e capace di trattare argomenti complessi, tuttavia cercando sempre di aderire alla realtà con esempi tratti dalla comune vita degli uomini.

La fortuna di Seneca nel Novecento è testimoniata anche dalla rappresentazione della sua figura, vittima della tirannide imperiale (fu costretto a darsi la morte su ordine di Nerone, accusato di aver partecipato a una congiura, sventata, contro di lui) in film, documentari, sceneggiati televisivi ambientati in età neroniana, e con l’affermarsi delle nuove tecnologie dalla presenza nei siti internet di numerose raccolte di massime e citazioni da destinare agli usi più vari, che rafforzano la sua fama di sapiente che vuole indicare all’uomo la via della virtù.

Alla base dell’attualità di Seneca è la capacità di offrire insegnamenti di vita utili in ogni tempo che hanno conquistato lettori sempre più numerosi, attratti dalla sua saggezza disincantata che sa parlare di virtù suscitando entusiasmo per essa, e dalla suggestione del suo discorso sugli uomini, creature deboli, vittime di continue illusioni, di impulsi irrazionali, afflitti da passioni e ambizioni che tormentano gli oscuri labirinti della coscienza alla ricerca di un equilibrio interiore.

Fra sue numerose opere, le “Le lettere a Lucilio”, costituiscono una vera miniera di suggerimenti non solo agli uomini del suo tempo, ma anche a quelli dei nostri giorni. In una di queste lettere si lamenta dell’eccessiva cura che gli uomini hanno del corpo e la scarsa e nefasta trascuratezza dell’applicazione ai beni dello spirito. Scrive a Lucilio, suo allievo e amico:

“Se vorrai stare veramente bene, dovrai preoccuparti anzitutto della salute dello spirito, poi anche di quella del corpo. Sarebbe, o mio Lucilio, sciocco e indecente per un uomo intelligente preoccuparsi soltanto di esercitare i muscoli, irrobustire il collo e rinforzare i fianchi: […] Considera il fatto che l’animo aggravato da un corpo più pesante, perde anch’esso di agilità. Perciò limita al necessario la cura del tuo corpo, e riserva più tempo per le attività dello spirito. […] In ogni caso dall’esercizio del corpo passa a quello dell’animo e tieni questo allenato giorno e notte, per il corpo invece è sufficiente un’attività moderata. Né il freddo, né il caldo, e neppure la vecchiaia, potranno impedire di esercitare l’animo, cura dunque questo tuo prezioso bene per diventare migliore col passare degli anni.”

Anche sui viaggi Seneca, sempre rivolto a Lucilio, ha pagine di grande saggezza e cautela, nelle quali indica i pregi ma anche i difetti e i pericoli di questo modo di trascorrere il tempo dedicato al riposo, allo svago, alla cura della propria salute, ma mette in guardia dall’opinione diffusa che i viaggi siano utili per trovare tranquillità:

“Noi stessi siamo la causa delle angustie, dei mali, delle oppressioni da cui siamo tormentati. Che giova attraversare i mari e andare di città in città? Se vuoi fuggire dai tuoi mali, non devi mutare luogo, ma te stesso. Si narra che Socrate, a uno che si lamentava di non aver avuto nessuna utilità dai viaggi rispose: ‘È giusto che sia così, infatti tu hai viaggiato in compagnia di te stesso’. Quanto sarebbe utile ad alcuni uomini potersi allontanare da sé. Infatti essi stessi sono la causa delle angustie, dei mali, delle oppressioni da cui sono tormentati. Che giova attraversare i mari e andare di città in città? Se vuoi fuggire dai tuoi mali, non devi mutare luogo, ma te stesso. […] Che vantaggio possiamo avere dai viaggi? Essi non frenano o moderano la brama dei piaceri, non reprimono l’ira, non temperano i forti impulsi dell’amore, e infine, non guariscono nessuna malattia dell’anima. […] Se porti infatti con te le tue passioni, sarai seguito da tutti i tuoi mali e non c’è luogo ove non ti senta da essi ugualmente oppresso e angustiato”.

In un trattatello, “De otio” afferma che l’“otium” è disporre del proprio tempo per la meditazione, per la conoscenza di sé, la ricerca della verità e della saggezza; è attività dello spirito, spazio dell’anima, libertà interiore. Affronta poi il problema della scelta tra “otium” e “negotium”, cioè tra vita contemplativa e attiva, e ritiene che il saggio debba dedicarsi a una vita attiva, avere un impegno politico a meno che lo Stato non lo impedisca. La rinunzia di Seneca all’impegno politico è dovuta alla necessità di allontanarsi da un potere iniquo, il suo ritiro dalla vita pubblica avviene dunque per una causa esterna: “Se lo Stato è più corrotto di quanto dovrebbe essere per potervi collaborare, se è invaso dai mali, il saggio non si sforzerà verso l’inutile”. L’“otium” inteso come vita contemplativa, dedita allo studio, alla riflessione, è dunque una scelta pienamente legittima: quando non è possibile dedicarsi alla politica, il ritiro ha comunque una giustificazione sociale perché migliorare se stessi durante una vita ritirata significa poter giovare agli altri. Lontano da impegni politici, Seneca precisa che le sue riflessioni nate durante l’“otium” potranno giovare a tutta l'umanità. Per Seneca, tuttavia, l’allontanamento dalla scena pubblica è un implicita confessione del fallimento del progetto di creare in Nerone il modello dell’ imperatore filosofo. Nella sua vita ritirata non raggiungerà pace interiore e sarà piuttosto un uomo inquieto che s’interroga e ripiega su se stesso.

Pur essendo spagnolo di Cordova era profondamente legato alle tradizioni romane, che tuttavia, al momento opportuno, sapeva criticare e anche distaccarsene per lo più dichiarandolo, se qualcuna di esse provocasse il suo dissenso. Era coraggiosamente assertore non proprio dei diritti e della parità, ma della dignità degli schiavi in quanto creature umane:

“Innanzitutto sono uomini, vivono sotto il tuo stesso tetto, anzi si può dire che sono compagni di schiavitù considerando che la fortuna può esercitare lo stesso potere su liberi e schiavi. Rido di coloro che ritengono poco onorevole cenare con il proprio schiavo. Per quale motivo, se non perché l’orgoglio tradizionale vuole che un folto gruppo di schiavi stia in piedi intorno al padrone che sta cenando? Egli mangia in quantità maggiore di quanto sia necessario al suo organismo e con avidità appesantisce il suo stomaco rigonfio, non più avvezzo a digerire e dedito più a rigettare il cibo che a ingerirlo. Ma ai poveri schiavi non è permesso neppure di aprire le labbra per parlare. […] Così avviene che coloro che non possono parlare alla presenza del padrone, in sua assenza sparlino, coloro invece che sono ammessi a parlare in sua presenza sono pronti a sacrificare la propria vita per il proprio padrone e ad addossarsi un pericolo per allontanarlo da lui; essi parlano sì durante il pranzo, ma sono capaci di tacere di fronte ai supplizi”.

Nel dialogo “De tranquillitate animi” Seneca affronta con Sereno, giovane amico, il tema dell’inquietudine, del “taedium vitae”, della ricerca di felicità che ogni uomo crede di trovare impegnandosi in ogni genere di attività, in fuga dalle proprie insicurezze, ma poi si ritrae nauseato e scontento di sé e desidera la solitudine. Il filosofo, esperto medico dell’anima, lo esorta a vivere in serena operosità senza escludere momenti di meditazione introspettiva, durante i quali osservare con distacco e serenità gli eventi. In sintesi, la tranquillità dell’animo è frutto dell’equilibrio tra la vita attiva e quella meditativa.

Esiste una sola via per raggiungerla, ed è quella che si percorre frenando le passioni sconvolgenti, portando ordine nel proprio animo mediante la ragione. La nobiltà dell’uomo si mostra proprio nella lotta continua contro gli allettamenti esterni, senza cedere a essi. Ne consegue anche l’idea che la virtù non sia innata nell’uomo ma frutto di una conquista progressiva.

Nella lettura delle numerose opere di Seneca - di cui abbiamo dato soltanto pochi esempi -, e soprattutto delle “Lettere a Lucilio”, così vicine alla quotidianità della nostra non facile esistenza, potremo trovare uno dei migliori modi di utilizzare il nostro tempo in un mondo sempre più complicato, a volte indecifrabile, e oscillante, come esso è, fra ostentazione di civiltà e diffusa pratica della violenza.

Nota

Immagine: Morte di Seneca di J. Louis David, Petit Palais, Parigi

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