di Maria Pellegrini.

In questo periodo di pandemia la didattica a distanza è diventata l’unica possibilità per gli alunni di seguire in sicurezza il programma scolastico che avrebbero dovuto svolgersi in classe insieme ai compagni e ai loro insegnanti. Tuttavia è necessario considerarla soltanto una breve soluzione temporanea per gestire un’emergenza sanitaria perché la scuola è una palestra di vita dove ci si confronta con l’insegnante e i compagni. Per questo motivo il mondo dell'istruzione sta attraversando un grande disagio che ha portato a rivendicazioni delle famiglie e degli studenti che chiedono di tornare a lezioni in presenza perché la relazione con il maestro, il professore e gli altri alunni è importante ai fini sia didattici che psicologici.

Gli appassionati della storia e della società del mondo antico si chiederanno come fosse gestito l’insegnamento ai tempi degli antichi romani.

 

Come scrive Catone il Censore (234-149 a. C.) rimpiangendo il “mos maiorum” ( il costume degli avi), erano i padri che insegnavano a leggere, scrivere, far di conto ai propri figli e li educavano ai valori del cittadino romano: l’amore per la patria, la famiglia, le sane tradizioni. In seguito, a contatto con la cultura e la società greca i romani seguiranno le loro abitudini affidando il bambino a un pedagogo, spesso uno schiavo di guerra “litteratus” (istruito, di una certa cultura) con il compito di occuparsi della formazione dei figli a lui affidati e di seguirli durante il percorso degli studi fino al momento dell’assunzione della toga virile. Da lui il fanciullo impara la lingua greca e un avviamento alla lettura e scrittura. Anche le madri romane, come attestano alcune biografie, esemplare quella di Cornelia madre dei Gracchi, hanno un ruolo essenziale nell’educazione dei figli, basato su un intenso rapporto affettivo.

L’insegnamento è sempre pagato dai genitori sia se svolto da un precettore presso l’abitazione dell’alunno, sia in un locale pubblico destinato a un gruppo di ragazzi, quando le famiglie non possono permettersi un maestro privato. La prima scuola pubblica, cioè gestita e finanziata dallo stato, è istituita dall’imperatore Vespasiano nel 78 d. C. La figura del maestro è tenuta in grande considerazione ma di lui scrittori e poeti dell’età imperiale romana ci hanno lasciato anche testimonianze fortemente critiche e sprezzanti.

Orazio, poeta d’età augustea, descrive il suo maestro quando tenta a suon di frustate di far conoscere ai suoi studenti le Storie di Livio: «ricordo come, da ragazzo, Orbilio me le dettasse a suon di frusta» (“Epistole” II, 1, 70). Che Orbilio fosse manesco (“plagosus” lo definisce Orazio, cioè che produce piaghe) anche il poeta Domizio Marso del circolo di Mecenate, in uno dei frammenti delle sue opere, testimonia che «Orbilio colpiva con la bacchetta e lo staffile». Svetonio nel “De grammaticis et retoribus” lo descrive «di indole rude verso tutti». Inoltre ci informa dei suoi lamenti per il poco guadagno ricevuto dalle lezioni e per le offese che gli insegnanti ricevevano dai genitori degli alunni.

Grandi elogi per il suo maestro leggiamo invece in Persio, poeta dell’ambiente culturale stoico di opposizione al regime di Nerone. In una delle sue satire ringrazia Anneo Cornuto per l’insegnamento ricevuto, non dimentica di aver condiviso con lui molti momenti della sua giovinezza: «Ricordo, trascorrevo lunghe giornate con te, / e per cenare insieme sottraevo le prime ore alla notte; / comune il lavoro, e ugualmente insieme disponiamo il riposo, / ci solleviamo dai faticosi impegni con una sobria mensa». (V, 41-44). Loda il maestro perché ha saputo preparare i propri allievi a cercare nella filosofia stoica il più sicuro approdo di ogni loro aspirazione. Già in un’altra satira si rivolge a coloro che interrompono gli studi filosofici rinunciando così a raggiungere la saggezza come fa il rozzo centurione che irride i maestri e tronfio dice: «Per me quello che so mi basta». E non contento di ciò aggiunge che non si cura di essere uno di quegli accigliati sapientoni che rimuginano le allucinazioni dei filosofi come colui che affermava: «nulla nasce dal nulla, nulla può tornare nel nulla» (III, 77 segg.).

Anneo Cornuto, alla morte di Persio, prepara l’edizione postuma delle Satire, rifiuta tutto il denaro che il suo studente gli ha lasciato e accetta solo i libri.

I maestri di Seneca, da lui ricordati con ammirazione, sono tre. Responsabili della sua formazione filosofica sono Attalo stoico, Sozione, Papirio Fabiano e la scuola dei Sestii, conosciuta indirettamente e attraverso questi ultimi due insegnanti.

Sozione con ogni probabilità è stato il suo primo maestro. In una lettera Seneca lo ricorda mentre predica l’astensione dalle carni, ma prima spiega le ragioni di tale pratica in uso presso i filosofi Sestii: l’uomo ha possibilità di alimentarsi in modo alternativo e deve rinunciare a uccidere gli animali perché questa abitudine accresce la sua crudeltà; poi riferisce quanto sostiene Pitagora sulla trasmigrazione delle anime: «sarebbe sacrilego mangiare il corpo di un animale che potrebbe ospitare l’anima di qualche congiunto». (“Lettere a Lucilio” n.108).

Seneca ha avuto una grande stima per il maestro Attalo, di cui ha un grato ricordo: «Quando frequentavo la scuola di Attalo, ero il primo ad arrivare e l’ultimo a uscire, lo invitavo a discutere anche quando passeggiava e lui era sempre disponibile ad andare incontro ai suoi discepoli». Voleva far presa sugli animi e stimolarli per suscitare una reazione perché «non c’è niente di più facile che indirizzare giovani spiriti all’amore dell’onestà e della giustizia». «Quando lo ascoltavo inveire contro i vizi, i disordini, i mali della vita ho giudicato quel maestro un essere sublime, superiore a tutto ciò che c’è di grande sulla terra». (“Lettere a Lucilio” n. 108)

Del maestro Fabiano che egli considera un filosofo, fa un’analisi del suo stile: «ha una certa grazia nella scorrevolezza del discorso che fluisce ma non straripa», infatti si propone di educare i costumi non di creare belle frasi perché la ricercatezza non si addice al filosofo. «La sua prosa è pacata, immagine di un animo calmo ed equilibrato. Tutta la sua opera ha lo scopo di educare l’animo, non di cercare l’approvazione». (“Lettere a Lucilio” n. 100).

Giovenale, vissuto nell’età di Traiano, è nostalgico del tempo antico quando i maestri sono tenuti in grande considerazione. In una satira scrive che le lezioni di citaredi e cantanti sono pagate molto di più di quelle dei grammatici «che potevano ritenersi fortunati se il loro stipendio era pari a quello di un vincitore nel circo». Desolato conclude «Nulla costerà al padre meno della scuola del figlio» (VII, 187). Inoltre passando in rassegna tutto il mondo delle professioni, considera che ai maestri di grammatica e retorica non è riservata una bella sorte. Non solo sono mal retribuiti o addirittura per niente retribuiti, ma sono considerati dai genitori «responsabili dell’ignoranza del figlio, del quale si rifiutano di ammettere l’incapacità di apprendere». Il poeta rievoca con malinconia quando i maestri erano stimati quasi fossero i padri dei loro alunni mentre «oggi un giovinastro prende a botte il maestro di retorica Rufo o altri insegnanti, eppure quel Rufo è molto stimato e soprannominato addirittura Cicerone». Non migliore è la sorte dei maestri di grammatica, sulla cui paga, minore pure dello stipendio di un retore, «ci mette i denti lo sciocco sorvegliante dell’allievo e chi è incaricato di versarlo ne tiene sempre una parte per sé» (VII, 216).

Anche il poeta Marziale, vissuto al tempo dell’imperatore Tito, si lamenta dei guadagni riservati ai precettori, minori di quelli di un calzolaio; in una satira esclama: «I miei genitori mi hanno insegnato a leggere /: cosa ci ho guadagnato a studiare la grammatica e la retorica?». Sconsolato pensa che non gli rimanga altro che spezzare penne e strappare libri «se una scarpa può dare tutte queste ricchezze a un calzolaio» (IX, 73). A chi gli chiede verso quali studi indirizzare il figlio, egli sconsiglia la grammatica, la retorica, la poesia. Se vuole fare i soldi suggerisce: «Fagli imparare l’arte del suonatore di cetra o di flauto, o piuttosto studiare da banditore d’asta o da architetto» (V, 6).

Quintiliano, professore di retorica a Roma al tempo dell’imperatore Vespasiano, dedica la sua opera al processo educativo di un oratore fin dall’infanzia. Anticipando le moderne didattiche scrive nella Prefazione dell’“Institutio oratoria”: «Il maestro deve instaurare un rapporto fondato sul reciproco senso di stima e affetto contemperando la sua autorità con la benevolenza. Se qualcosa non va, egli trovi il modo più efficace per rendere consapevoli i discepoli dei loro errori, ma in modo da non scoraggiarli e stimolarli a far meglio».

Nell’immagine: Bassorilievo rinvenuto a Neumagen-Dhron, presso Treviri, un maestro romano con tre allievi.

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