di Maria Pellegrini.

Le “fake news”, fenomeno che sta crescendo esponenzialmente per la velocità con la quale è possibile trasmettere notizie false o tendenziose, non sono un prodotto dei nostri tempi, ma ha radici profonde, se ne possono trovare esempi sin dall’epoca greca e romana, addirittura nelle sacre scritture. I racconti del passato contengono essenzialmente verità storiche, ma talvolta la narrazione non corrisponde a verità, spesso i fatti sono travisati, distorti dai vincitori che li modificano a loro vantaggio, o sono manipolati da chi le racconta per denigrare qualcuno o per dare credito alle proprie teorie.

Scrive Erik Durschmied nel suo volume “Fake history. Le bugie della storia raccontate dai vincitori” (Piemme (pp. 454, € 19,00): «La verità storica non può mai essere raggiunta pienamente perché le testimonianze su cui si basa sono inattendibili, soprattutto per quanto riguarda gli eventi, i numeri, le cause che hanno portato allo scoppio di spaventosi conflitti». Gli storici greci ci hanno lasciato molte testimonianze sugli avvenimenti e i loro protagonisti, ma dal loro punto di vista. E come può considerarsi fedele - si domanda Durschmied - il resoconto delle guerre galliche scritte dallo stesso Giulio Cesare nel “De bello Gallico”? «È inevitabile che la sua narrazione rifletta il suo “vanitoso” punto di vista».

Il volume è un campionario delle atrocità e distruzioni che le guerre del mondo antico, soprattutto greco e romano, hanno lasciato dietro di sé. La maggior parte dei resoconti sono dedicati ai trionfi dei vincitori, e quando si riportano le tristi sorti dei vinti, queste sono un merito, un vanto, tanto più elogiato quanto maggiore è il numero dei caduti per mano dei loro eserciti. Il messaggio che vuole mandare l’Autore è la brutalità delle guerre: su ogni campo di battaglia avviene un’ecatombe, ogni vittoria è seguita da una carneficina, ma la maggior parte degli storici, soprattutto quelli di parte, pone l’accento più sui trionfi che sui massacri.

Con l’espressione “Fake history”, si fa riferimento o alla narrazione di fatti che lo studio dei posteri ha dimostrato inattendibili, oppure si tratta di resoconti non intenzionalmente falsificati o manipolati, ma espressione delle proprie convinzioni o punto di vista che sarà diverso a seconda se a scrivere è un rappresentante dei vincitori, dei nemici vinti, o di un interprete contemporaneo dei fatti tramandati dalle fonti antiche. Non possiamo qui elencare tutte le vicende storiche, soprattutto battaglie, prese in esame nel corposo volume di Durschmied. Possiamo considerarne alcune.

Un esempio di narrazione di cui gli studi o le ricerche successive hanno evidenziato la falsità, risale alle Sacre scritture. Siamo nel 1010 a. C., Davide, noto per la sfida con il gigante Golia, divenuto poi re di Israele, vuole conquistare la fortezza di Gebus, la futura Gerusalemme, situata su un’altura e circondata da solide mura. Ogni tentativo di scalare quei possenti baluardi ha procurato soltanto morti. La Bibbia narra di un miracolo. Il Signore una notte scende dal cielo e apre la porta di quelle mura consentendo al re Davide e ai suoi uomini di entrare e conquistare la città. La notizia dell’intervento divino si sparge ovunque, e tutti credono che qualcosa di miracoloso sia accaduto. Tre millenni dopo (nel 1867) un ufficiale inglese scopre come Davide sia riuscito a entrare in quella fortezza. In un brano biblico è scritto: «chi colpirà i Gebusei, li raggiungerà attraverso il canale» (nel testo è scritto “sinnor” che significa pozzo, tunnel, canale). Warren - questo il nome dell’ufficiale - si reca ai piedi della collina e scopre l’esistenza di un tunnel il cui ingresso è ormai invisibile, ridotto a una piccola apertura nella roccia, vi si addentra strisciando, a rischio della propria vita lo percorre tutto e arriva in un punto che comunica con l’esterno e porta entro le mura della città di Gebus. Il segreto muore con Davide che ha preferito far credere a «un miracolo inviato dal cielo», ma la verità è svelata per l’intervento del coraggioso ufficiale conoscitore della Bibbia.

Esempi di Fake history, nei quali gli storici hanno dato un ritratto del vincitore in modo da esaltarne le qualità e non documentarne le nefandezze, sono le figure di Mario e Cesare nella repubblica romana, e quelle di Augusto e degli imperatori seguenti fino alla caduta dell’impero romano d’Occidente. Con un salto di secoli dai tempi biblici occupiamoci del generale e uomo politico Mario. La sua gloria è aver fermato i Cimbri e i Teutoni, pronti a invadere Roma, ma è ricordato anche per la riforma dell’esercito, strumento delle future conquiste e come inventore della guerra psicologica, infatti ripete continuamente ai suoi: «Noi batteremo i barbari…non sono una super razza». Con un attacco a sorpresa affronta i Teutoni e li sconfigge ad Aquae Sextiae (102). Centinaia di migliaia uccisi e ottantamila tra donne e bambini condotti in schiavitù: sono le conseguenze spietate delle guerre, ma nei libri di storia poco si ricorda della crudeltà di Mario nei confronti dei sopravvissuti. Come ricorda Durschmied, «i prigionieri più deboli e malridotti, un inutile fardello da nutrire, e una minaccia vivente alla sicurezza dei conquistatori» sono gettati da una rupe e i morti e i morenti lasciati a imputridire nel caldo dell’estate con un fetore insopportabile. L’esercito di Mario, di nuovo vittorioso ai Campi Raudii (101 a. C.) contro i Cimbri, lascia sul campo di battaglia «140.000 i morti, 60.000 prigionieri mandati nelle miniere di sale, e le donne nei bordelli». Il vincitore è eletto console per sei volte consecutive, ma il suo governo sfocia in un regime di terrore e in una guerra civile che porta al potere Silla.

Nel narrare le battaglie di Mario, ma anche in altri passi del libro, l’Autore prende le vesti del romanziere, descrive i luoghi: «I boschi erano immersi in un silenzio tombale; nessun uccello, nessun animale selvatico, certamente nessun essere umano»; oppure immagina quali siano i pensieri del comandante quando prepara un attacco a sorpresa contro i Teutoni: «se Annibale aveva potuto condurre gli elefanti attraverso le armi, certamente i suoi legionari sarebbero stati in grado di superare una montagna coperta di pini». Quindi ordina a tremila dei suoi migliori combattenti di superare il valico.

A Cesare sono dedicate settantasette pagine nelle quali la sua figura è vista in tutti i pregi e difetti: si celebrano le capacità militari, l’amore e la devozione dei suoi soldati, il nascere della lotta di potere tra le due fazioni, i popolari di Cesare e gli aristocratici di Pompeo vincitore della guerra contro Mitridate nel 66 a.C. Non è ancora venuto il momento dello scontro, si arriva al primo triunvirato un patto tra Cesare, Pompeo e Crasso il banchiere il più ricco di tutta Roma. L’Autore ripercorrendo le imprese di Cesare, esprime alcuni giudizi fulminei su di lui: «uomo di smisurata ambizione, sfrenato desiderio di potere. Unico desiderio diventare padrone di Roma». Né generosa è la considerazione che ha di Crasso «non era un generale ma si era comprato un esercito con cui aveva represso brutalmente la rivolta di Spartaco nel 71 a. C. impresa che coronò facendo crocifiggere lungo la via Appia tutti i sostenitori del gladiatore ribelle. Cosa che di per sé provava che era un uomo crudele». Pompeo è giudicato «l’unico uomo che poteva ostacolare a Cesare la conquista del potere»; tornato a Roma, dopo le vittorie su Mitridate, egli reclama terre per i suoi soldati e la ratifica senatoria dei suoi atti amministrativi. La tensione in città si avverte: Pompeo, forte dell’appoggio dell’esercito, è pronto ad un atto di forza o addirittura a un colpo di Stato. Cesare con straordinaria abilità approfitta della situazione: riesce a riconciliare Pompeo con Crasso, e tutti e tre «come cani che si azzuffano per un osso» stringono un patto privato di spartizione del potere, noto col nome di “Primo triumvirato” (60 a. C.). Cesare diventa console e l’anno successivo proconsole nelle Gallie. Subito prende a pretesto uno sconfinamento della tribù degli Elvezi nei territori degli Edui, amici e alleati del popolo romano, per intervenire negli affari interni della Gallia indipendente e scatenare una guerra di conquista nell’intera regione. «Il suo unico fine era diventare il padrone di Roma e la conquista della Gallia diviene lo strumento per ottenerlo». Durschmied non ama Cesare, sui giudizi negativi espressi si nasconde il suo punto di vista che in parte può anche essere condiviso ma non totalmente: Cesare non è un mostro di cinismo, capace dei peggiori crimini. Dunque l’Autore stesso ci dà un esempio di una personale interpretazione delle azioni di quel condottiero, amato dai suoi soldati, da lui definito «un usurpatore, un manipolatore, che con straordinaria destrezza cambiò il modo di ragionare delle folle osannanti per prepararle alla schiavitù sotto un despota imperiale», «un politico disposto a macchiarsi di crimini…. si comportò con grande brutalità nei confronti dei popoli conquistati soprattutto in Gallia». Con una osservazione del tutto personale aggiunge «Si trattò di azioni che macchiavano la coscienza e pesavano sul cuore. Non però su quello di Cesare». Se la conquista della Gallia fu la sua più grande impresa, i massacri furono spaventosi. Durschmied conclude: «in dieci anni aveva conquistato ottanta città importanti e sottomesso trecento tribù, mentre un milione di Galli furono condotti in schiavitù per servire i loro padroni romani».

Ma arrivano le fatidiche Idi di marzo: con la morte di Cesare e quella di Bruto, che ha organizzato la congiura, la repubblica romana muore per essere sostituita dall’impero di Augusto e dei suoi successori.

Come è rappresentato nel libro il lungo principato augusteo? Una vera e propria dittatura militare e burocratica, dunque un regime, anche se illuminato, dispensatore di pace interna e perciò circondato da vasto consenso.

Da Tiberio in poi, fino a Domiziano la storia di Roma è stato un seguito di congiure antimperiali terminate tutte con repressioni sanguinose. Il capitolo che riguarda gli imperatori dopo Augusto è intitolato da Durschmied «Un’epoca di assassini». La gloriosa repubblica romana è sostituita dal «dominio di imperatori senza scrupoli e spesso pronti all’assassinio». Per arrivare al soglio imperiale ricorrono a violenza, usurpazione, ma il migliore e più sicuro dei modi è «assassinare il legittimo erede e tutta la sua famiglia». Scrivendo dei successori di Augusto, Durschmied riporta condividendole le parole di Edward Gibbon, autore del celebre “Declino e caduta dell’impero romano”: «È quasi superfluo enumerare gli indegni successori di Augusto. Il tetro, implacabile Tiberio, il furioso Caligola, il debole Claudio, il depravato e crudele Nerone, il bestiale Vitellio e il disumano Domiziano sono condannati all’infamia eterna. Roma fu oppressa da una costante tirannia, che sterminò le antiche famiglie della repubblica e fu fatale per ogni virtù e ogni talento che emersero in quel disgraziato periodo». Il volume si conclude con altre distruzioni, altre guerre. Molto efficaci, ma cruente, sono le descrizioni dei massacri visti nella più cruda realtà: corpi che cadono uno sull’altro, ogni scontro un bagno di sangue, fame, epidemie, cupidigia, violenza, saccheggi, morti lasciati in pasto agli avvoltoi. Non è storia romanzata ma, come nei romanzi, c’è una cornice al racconto dei fatti con la descrizione dei luoghi, siano fitti boschi o pianure, deserti o città, con un’appassionata partecipazione ai sentimenti e pensieri attribuiti ai personaggi di cui si sta parlando, ed emotiva repulsione per i tragici fatti da cui la storia è affollata.

Contrariamente al famoso detto “historia magistra vitae”, Durschmied afferma che «l’unica cosa che la storia ci insegna è che l’umanità non impara mai dalla storia».

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