di Vincenzo Vita.

Nei giorni scorsi è stato presentato dal direttore generale Massimiliano Valerii il 16° rapporto sulla comunicazione del Censis. Uno studio realizzato in collaborazione con la Rai, l’agenzia Agi, Tv2000 e Mediaset.

Che c’è di nuovo nella dieta mediatica italiana? Nulla di inedito, sembrerebbe a prima vista. Tuttavia, ciò che negli ultimi anni era una traccia o un sintomo è via via diventato la tendenza dominante. In particolare, si è affermato definitivamente il fenomeno della “transmedialità”.

Se per un verso la televisione rimane centrale, è il messaggio a prevalere sul mezzo. Minore la fruizione attraverso lo schermo e maggiore quella mediante Internet (Web tv e smart tv salgono al 34,5% dell’utenza: +4,4% in un anno; mobile tv in grande ascesa, passando dall’1% del 2007 al 28,2% di oggi). La vecchia Signora cambia pelle e si maschera, si “ri-media”. Et et, non aut aut: con e non contro i social. E proprio la tecnica trasmissiva digitale terrestre è in calo, a dimostrazione del carattere “politico” (ci ricordiamo dell’antitrust sul numero dei canali, che dovevano aumentare per far rientrare nelle già fragili norme antitrust “Retequattro”?) della sbornia propagandistica che ne caratterizzò l’introduzione.

Per non scomparire è necessario, però, cambiare. Del resto, una prova provata è stato il recente festival di Sanremo, dove l’utenza generalista si è spartita a metà la fruizione con le altre modalità di diffusione.

Non sarà un caso se la spesa per l’acquisto di telefoni (di nuova generazione o meno) è quadruplicata. Incrementano, in generale, le vendite di computer ed accessori adatti.

La più ricca dieta mediatica, costruita sulla miscela tra i diversi mezzi, si trova negli ambienti metropolitani e assai meno nei centri urbani di minori dimensioni. Le generazioni “giovani-adulte” (30-44 anni) fanno la parte del leone. Non le polarità anagrafiche estreme.

Regge la radio, da sempre medium eclettico e versatile, capace di incrociarsi agevolmente con pc e smartphone, nonché di navigare bene nell’ambiente digitale.

Sempre male il settore dei libri, visto che solo il 41,9% delle persone legge almeno un volume all’anno. Né gli e-book hanno compensato le perdite. Speriamo che la bella legge sulla lettura appena varata dal parlamento riesca nel miracolo.

I giornali. Qui il rapporto mostra un certo ottimismo, chissà se della volontà o della ragione. Comunque, pare arrestarsi la caduta verticale delle vendite della carta stampata, dimezzate dal 2007. Mentre le edizioni on line aumentano in un anno solo dello 0,1%. Purtroppo, proprio le grandi città trainano la crisi, come dimostra pure l’inquietante chiusura di moltissime edicole.

Il documento del Censis si cimenta, infine, sull’affascinante tematica della costruzione delle identità. Una sorpresa c’è: un misero 3,5% di donne e di uomini si autodetermina sul proprio profilo social, percentuale che arriva ad un modesto 9,1% tra i giovani under 30. Insomma, i media tradizionali rimangono cruciali nella formazione dell’opinione pubblica e della coscienza, ancorché un po’ ibridati. I telegiornali sono sempre al posto di comando, ma Facebook incombe, insieme agli Over The Top.

La pesonalizzazione del e nel consumo disintermediato e la “biomedialità” connotano il presente. Ma senza certezze.

In una transizione non governata Il populismo digitale incombe, si potrebbe aggiungere; e –sottolinea il Censis- l’immaginario collettivo si frammenta. Si allarga, dunque, la distanza tra chi si abbuffa e chi soffre nelle periferie culturali.

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