di Alfonso Gianni.

Da un centenario a un cinquantenario. Tra pochi mesi le riflessioni – difficile chiamarle celebrazioni – sulla rivoluzione bolscevica cederanno il passo a quelle su ciò che nel mondo ha rappresentato il 1968. Che ci sia diversità e sproporzione tra i due avvenimenti è fin troppo evidente. Tanto per cominciare il primo si concluse con una vittoria, il secondo ovunque, tanto ad ovest, quanto a est con una sconfitta o, il che per alcuni versi è ancora peggio, con una sorta di rivoluzione passiva. Se escludiamo da questo computo, come è giusto fare, le lotte anticoloniali vincenti che anticiparono, incrociarono e sopravanzarono il ’68, che in parte lo influenzarono, ma che avevano altre origini e altra natura. In effetti non si può dimenticare di annoverare tra i prodromi del ’68 gli esiti della lotta di liberazione d’Algeria per l’influsso che ebbe, in particolare sulla gioventù e sulla società francese, ma si può ben dire su tutta Europa.

Tantomeno, essendo l’avvenimento contemporaneo a quell’anno, si può espungere dal ’68 l’enorme impressione che destò, in tutti i paesi dell’Occidente in cui il movimento si sviluppò, l’offensiva sferrata dai nordvietnamiti e dai vietcong, della notte tra il 30 e il 31 gennaio di quell’anno, il capodanno vietnamita, e per questo nota come l’offensiva del Tet. Furono prese di mira le principali città del Vietnam del Sud e la base statunitense di Khe Sanh. Non ottenne significativi successi sul piano militare, ma enormi dal punto di vista mass-mediatico nell’intero globo dando un colpo decisivo al morale delle truppe statunitensi e rovesciando le sorti dello scontro, contribuendo a orientare l’opinione pubblica mondiale contro la guerra e ponendo così le basi per la rovinosa sconfitta americana. La foto del vietcong, o sospettato tale, giustiziato per la strada con un colpo di pistola alla tempia da un generale sudvietnamita, resta una delle immagini più vivide e terribili della mia gioventù. Eddie Adams, l’inviato dell’Associated Press, che la scattò dichiarò tempo dopo: “Il generale uccise il Vietcong. Io uccisi il generale con la mia macchina fotografica”. Le immagini – solo mezze-verità, aggiunse Adams – cominciavano ad assumere un ruolo e un potere determinante nei conflitti bellici destinato ad aumentare enormemente, a volte superiore agli avvenimenti concreti che raffiguravano. Un tratto caratterizzante della modernità.

Ma il ’68, nel suo complesso, fu un’altra cosa ancora. E che cosa esattamente non è facile neppure oggi dirlo con la dovuta compiutezza. Un conto era la guerra di liberazione dei dannati della terra – per usare la celebre definizione di Franz Fanon – un altro la rivolta degli “schiavi felici” nella società occidentale, per rubare un’espressione efficace, malgrado la sua ambiguità e parzialità (il ’68 si sviluppò anche a est, chi non ricorda Praga, ove una simile definizione è del tutto inappropriata) di Mark Mazower. Non ha davvero torto lo storico britannico quando invece afferma che: “Si prova un senso di impotenza nel provare a interpretare gli avvenimenti di quel periodo. Così tanti elementi differenti furono in gioco simultaneamente – l’emergere del movimento delle donne, per iniziare con forse il più importante, la protesta generazionale, specialmente nelle università, l’antiamericanismo e l’anticonsumismo. Il piacere spirituale, l’autorealizzazione e l’amore coesistevano con altri generi di vocabolari politici – quelli della rivoluzione sociale, della guerra di classe, degli scioperi e delle barricate.” (Mark Mazower Rivoluzioni. Una discussione di fine Novecento. A cura di D.L. Caglioti e E.Francia. La Collana degli Archivi di Stato).

Certamente il carattere composito, eterogeneo e intimamente contradditorio del ’68, conteneva implicitamente ambiguità che, seppure in modi diversi a seconda delle latitudini, e soprattutto delle differenti condizioni politico-sociali, ne furono alfine una delle cause principali della sconfitta. L’aspirazione alla liberazione, per sé e per gli altri, spingeva gli studenti e i ceti intermedi in alcuni luoghi importanti del mondo capitalisticamente sviluppato – come in Italia – ad alleanze fino a quel momento impensabili con la classe operaia – non sempre e non ovunque da quest’ultima e da chi la dirigeva politicamente accettate, come in Francia. Ma allo stesso tempo poteva prevalere, come in effetti fu in molti casi, una spinta modernizzatrice al sistema funzionale ad una sussunzione dei “ribelli” nelle classi dominanti. Le biografie individuali di sessantottini che hanno seguito questo percorso, pur nel lungo sessantotto italiano, che tale fu in virtù della riuscita alleanza fra “studente di massa” e “operaio di serie”, non si contano. Le loro figure hanno animato elite economiche, intellettuali e politiche fino ai tempi attuali. Un esempio solo tra i tanti, anzi i troppi: l’attuale Presidente del Consiglio italiano, Paolo Gentiloni che del ’68 romano, e delle formazioni politiche che da esso direttamente o indirettamente nacquero, fu indubbiamente uno degli esponenti riconosciuti.

Movimenti antisistemici

Ma tutto questo non toglie alcuna validità al parallelismo che Giovanni Arrighi, Terence H. Hopkins e Immanuel Wallenstein (in Antisystemic Movements, Manifestolibri, Roma, 1992) vollero stabilire fra il 1968 e il 1948, lasciando indietro non solo il 1917, ma anche la altre grandi rivoluzioni anticoloniali del Ventesimo secolo. Un po’ apoditticamente, se si così si può dire, i tre autori affermano che “Ci sono state solo due rivoluzioni mondiali. Una nel 1848. La seconda nel 1968. Entrambe hanno fallito. Entrambe hanno trasformato il mondo”. La loro analisi non è recentissima. Eppure non solo non ha perso di validità, ma purtroppo non ne sono seguite altre di uguale valore e spessore. Introducendo oramai vent’anni or sono, un libro che sviluppava una conversazione con Fausto Bertinotti sull’argomento (Pensare il ’68. Per capire il presente, Ponte alle Grazie 1998, edizione accresciuta 2001) osservavo proprio come fosse davvero arduo indicare uno studio che potesse offrire una interpretazione esauriente del periodo, di presentare un quadro compiuto, per quanto non definitivo - nulla lo è mai - della complessità dei suoi avvenimenti. Il che non era solo un atto dovuto di modestia intellettuale, poiché scoperchiava tutti i limiti del nostro stesso lavoro, ma una sollecitazione verso il mondo degli studiosi che spero possa essere raccolta in occasione dell’imminente cinquantenario.

Tornando ai tre autori citati, è evidente che a loro non interessa tanto il carattere vincente, anzi perdente, dei due processi rivoluzionari, quanto la loro dimensione mondiale, che nel caso del ’17 può dirsi molto contenuta e immediatamente arrestata, e il loro carattere spontaneo e imprevisto. Questo ultimo elemento viene visto come una delle cause della loro sconfitta. Essi affermano infatti che “il fatto che non siano state previste, e quindi siano state profondamente spontanee, chiarisce perché abbiano fallito e perché abbiano cambiato il mondo.”. Ma su questo specifico punto di analisi non si può concordare. Almeno non interamente. Anche la rivoluzione del 1917 si basava su qualcosa se non di imprevedibile in assoluto, certamente di imprevisto, quantomeno da parte dei suoi protagonisti – come lo scoppio della guerra mondiale -, ma in questo caso – per le ragioni ampiamente esposte anche in altra parte di questo numero della rivista – l’imprevisto, grazie alla straordinaria lucidità politica e rapidità di azione concreta di una direzione politica, fu messo a valore quale potente fattore di sbaragliamento degli avversari e quindi di vittoria. Nel caso del ’68 francese, ad esempio, successe il contrario. Fu la capacità politica della reazione guidata da De Gaulle e il suo tempismo ad avere la meglio e a spegnere rapidamente il maggio francese lasciandone accesa solo qualche fiammella a covare sotto le ceneri. Direi che entrambi questi grandi avvenimenti storici ci dimostrano la disfatta contemporanea, tanto in chiave rivoluzionaria che controrivoluzionaria, dell’autonomia del politico e quella del sociale. Questione attorno cui tuttavia ancora oggi ci si arrovella, con la complicazione dell’irrompere della categoria e del protagonismo reale del populismo.

La rivoluzione come la dimensione più elevata della politica

Ma l’analisi dei tre eminenti studiosi del Fernand Braudel Center diventa più interessante quando essi si addentrano nelle differenze e nelle specificità di questi grandi fatti storici. Il 1848 – “L’avvenimento che sorprese tutto il mondo politico come un fulmine a ciel sereno” scrisse Engels nella sua prefazione alla terza edizione tedesca del 18 brumaio di Luigi Bonaparte di Karl Marx - viene individuato come un momento di passaggio chiave per i movimenti antisistemici quanto alla definizione della strategia politica. Infatti esso ha posto le basi per individuare la lotta per conquistare il potere statale come “una tappa indispensabile per la trasformazione della società e del mondo”. La trasformazione assume quindi i caratteri della rivoluzione, prendendosi una rivincita storica contro la reazione e la normalizzazione post rivoluzione francese. Anche se, scrive Marx nel celebre incipit del suo 18 brumaio di Luigi Bonaparte, riprendendo criticamente Hegel, la storia si ripete sì, ma prima come tragedia e poi come farsa: “Caussidiere invece di Danton, Louis Blanc invece di Robespierre, la Montagna del 1848-1851 invece della Montagna del 1793-1795, il nipote invece dello zio”. La breve, ma intensissima esperienza della Comune di Parigi (a proposito, chi l’aveva prevista?) torna drammaticamente a sottolineare questo passaggio, con un protagonismo corale di popolo.

Ma è proprio il 1917 che porta a compimento una svolta a favore della strategia della presa del potere nella sua variante rivoluzionaria, rompendo duramente con ogni forma di gradualismo riformista. Poi, sconfitta in Occidente, la rivoluzione si ripresenterà vittoriosa in Oriente, soprattutto grazie alla lotta su più fronti dei comunisti in Cina nel 1949. Ma si afferma, anche qui in modo inaspettato e avventuroso, anche al di là dell’Atlantico, a un passo dagli Usa, con la vittoria castrista a Cuba di dieci anni dopo.

Il fascino della rivoluzione si fa sentire eccome sul ’68, in particolare in Europa occidentale. E si può ben dire che è l’ultima volta che accade in questi ultimi cinquant’anni, almeno in quelle dimensioni così profonde ed estese. La rivoluzione come la categoria più elevata della politica, raggiunge qui il suo apogeo. Il concetto di rivoluzione non si esaurisce nella dimensione dell’atto rivoluzionario, anzi assume diverse caratteristiche e complessità a seconda delle culture politiche preesistenti alle diverse latitudini. In effetti è proprio la questione del potere, più che della presa del, statuale ma anche a livelli superiori e inferiori, ovvero della sua natura, delle modalità del suo eventuale uso, fino alla possibilità di una sua possibile e auspicata estinzione, che fornisce un cono di luce o un’ombra lunga, a seconda dei diversi punti di vista, che il ’17 getta sul ’68. La questione del potere, che in campo studentesco costituisce l’approdo – almeno concettuale, anche se non sempre e non ovunque – muovendo dalla più immediata lotta all’autoritarismo, assume molteplici sfumature, tutte destinate ad influenzare il corso delle cose e delle vite individuali lungo tutti gli anni a venire, fino ai giorni nostri.

La questione del potere e della natura della politica nei testi del ‘68

E’ persino divertente e commovente prendere oggi in mano alcuni testi di quel variegato ’68. Mi riferisco in particolare a quelli stesi da dirigenti o protagonisti del movimento e non tanto da intellettualità che sul movimento riflettevano dal di fuori o a fianco di esso. Non citerò quindi, come avviene di solito in questi casi, frasi di Herbert Marcuse o di altri francofortesi, non perché ne voglia negare l’importanza e l’influenza che soprattutto il primo ebbe sul movimento americano e non solo. Ma perché mi pare assai più interessante fare riferimento a testi oggi assai meno noti, ma frutto di un’elaborazione collettiva o di riflessioni individuali nate dall’esperienza viva nel movimento reale. Vi si possono riconoscere tematiche attualissime, anche se allora trattate con qualche ingenuità, ma con l’entusiasmo di chi sta disvelando la vera natura dei rapporti sociali, infrangendo la crisalide protettiva costruita dalle classi dominanti, spesso immerso nella convinzione eccitata di una precipitazione imminente degli avvenimenti, come se il cambiamento, la rivoluzione fosse a un passo e a portata di mano. “Il capitalismo ha le ore contate” si legge in uno dei tanti scritti che preparano il ’68 negli Usa (Greg Calvert, “Democrazia partecipatoria, leadership collettiva e responsabilità politica” 1967, in AA. VV. Il ’68 senza Lenin. Ovvero: la politica ridefinita. Testi e documenti. Edizioni e/o, Roma 1998). Così come interessante è cogliere le differenze con cui quest’ultima, la rivoluzione, veniva trattata e descritta, il che comportava una reinvenzione del concetto stesso di politica.

Rileggiamo quindi alcuni passi di un famoso e importante documento che anticipa e influenza il ’68 statunitense, Il Manifesto di Port Huron, una piccola località del Michigan ove nel giugno del 1962 la Students for a Democratic Society (Sds), che si scioglierà nel 1969, tenne il congresso che si concluse con una dichiarazione programmatica incentrata sui concetti della democrazia partecipativa, della lotta all’autoritarismo e della nonviolenza. Il documento venne redatto dai due co-presidenti Alan Haber e Tom Hayden (quest’ultimo, scomparso l’anno scorso, pensatore e attivista dei diritti civili, è però noto ai più per essere stato uno dei mariti di Jane Fonda). “In una democrazia partecipatoria – si legge nella parte finale della dichiarazione – la vita politica dovrebbe fondarsi su un certo numero di principi basilari: che il processo decisionale coinvolgente conseguenze sociali fondamentali venga affidato a organismi di gruppo a carattere pubblico; che la politica venga vista in positivo, come arte di creare collettivamente una modalità accettabile di relazioni sociali; che la politica abbia la funzione di fare uscire la gente dall’isolamento indirizzandola alla comunità – costituendo questa un mezzo necessario, anche se non sufficiente, perché la propria vita abbia un significato; che l’ordine politico serva a chiarire i problemi in vista della loro soluzione… Nel cambiamento e nello scambio sociale siamo contrari alla violenza … E’ necessario che i mezzi violenti vengano aboliti sviluppando quelle istituzioni … che incoraggino la nonviolenza come condizione per l’aprirsi del conflitto”. Come in fondo è logico attendersi i temi dell’economia sono posti ad un livello inferiore, determinati da quello politico più che determinanti. Il lavoro deve essere “educativo” e “creativo”, la sua organizzazione sociale deve essere aperta alla “partecipazione democratica”. (In Il ’68 senza Lenin… cit.). I contenuti di quella dichiarazione ebbero un’influenza decisiva per le lotte studentesche, quelle degli studenti bianchi non dimentichiamolo, lungo i restanti anni sessanta. Fu solo alla fine del decennio che la radicalizzazione rivoluzionaria della Sds avrebbe portato all’accantonamento della Dichiarazione ed a cercare nuove chiavi di lettura nelle tesi del marxismo contemporaneo.

Siamo concettualmente lontanissimi dal leninismo e dal pensiero comunista del ‘17, ma anche, ad esempio, dall’operaismo italiano, la cui influenza nella formazione dei gruppi dirigenti sessantottini, e non solo, è ampiamente dimostrata. Scrive infatti Mario Tronti nel 1965, nella pagina conclusiva della sua opera più famosa: “Solo la rivoluzione comunista, come diceva Marx, o semplicemente solo la rivoluzione, come si può cominciare a dire oggi, e cioè solo l’attuale programma minimo della parte operaia, si rivolge per la prima volta contro tutto il modo dell’attività che si è avuto finora. In questo sopprime il lavoro”. Il corsivo è dell’Autore, il quale, conscio dello stupore che l’affermazione può creare, insiste. “E proprio così abolisce il dominio di classe. Soppressione operaia del lavoro e distruzione violenta del capitale sono quindi una cosa sola. E il lavoro come ‘primo bisogno della vita’? Forse conviene trasportarlo dalla prospettiva futura del comunismo alla storia presente del capitalismo e farlo cadere dalle mani operaie e consegnarlo ai padroni” (Mario Tronti, Operai e capitale, DeriveApprodi, Roma 2006, pag. 265).

Ma a questa lontananza non va dato necessariamente un senso negativo. Ne vanno riscontrati i limiti ma anche le potenzialità, peraltro tutte ancora da sviluppare. Infatti, come affermerà Giovanni De Luna, in una intervista dei primi anni duemila (la Repubblica, 27 novembre 2002) in occasione di un convegno che ricordava la famosa occupazione dei palazzo Campana, sede delle facoltà umanistiche di Torino, alla fine del novembre del ’67: “Il '67-68 è stato il primo tentativo di andare ‘oltre il Novecento’, per ricordare il senso del saggio omonimo di Marco Revelli. C'era il rifiuto della statualità della politica e del lavoro fordista. E lo stato e la fabbrica sono due capisaldi del Novecento». Sono, come si può vedere temi attualissimi di riflessione nel tempo del capitalismo cognitivo, della globalizzazione e delle sue contraddizioni, della crisi dello stato-nazione, del sempre maggiore carattere a-democratico e oligarchico che assumono gli organi di governo sovrannazionali. In questo senso è sicuramente vero che nel ’68 e nel pensiero che da esso e attorno ad esso promanava vi erano intuizioni profonde sul divenire e sul mutare del sistema capitalistico stesso, forse più significative e fertili che non le idee per un suo superamento.

La riflessione dei protagonisti del ’68 in Europa

Tornando nel Vecchio continente, vale la pena di chiamare in causa direttamente i protagonisti del’68 europeo, mostrando come l’onda lunga dell’afflato rivoluzionario si faccia sentire con ben altra incidenza e urgenza che non oltreoceano. E contemporaneamente si evidenzi l’intreccio con le lotte anticoloniali, e in particolare con la guerra di liberazione vietnamita. Tratto, quest’ultimo, certamente comune al movimento studentesco americano. Conclude così Rudi Dutschke il suo scritto su Le condizioni storiche per la lotta internazionale di emancipazione del 1968: “In ogni punto della Repubblica Federale questo scontro è possibile in forma radicale. Dipende dalle nostre capacità creative…L’autentica solidarietà rivoluzionaria con la Rivoluzione vietnamita consiste nell’indebolimento immediato e nel rovesciamento, i prospettiva, dei centri dell’imperialismo… Rendere rivoluzionari i rivoluzionari è dunque la premessa decisiva per rendere rivoluzionarie le masse”. ( In Il ’68 senza Lenin … cit.).

Il passaggio dalla lotta all’autoritarismo a quella per una generale trasformazione generale e rivoluzionaria della società è espresso a chiare lettere in un testo di Gabriel e Daniel Cohn Bendit del 1968, dal titolo già particolarmente significativo Da Nanterre alla Sorbona. L’estremismo rimedio alla malattia senile del comunismo (In Il ’68 senza Lenin…cit.). Dopo la sottolineatura dell’importanza della lotta di liberazione algerina per la formazione e la radicalizzazione della nuova generazione francese, gli autori ribadiscono che “…il movimento studentesco è rivoluzionario e non universitario. Esso non rifiuta le riforme (la sua azione le provoca…) ma tenta, al di là delle soddisfazioni immediate, di elaborare una strategia che permetta il cambiamento radicale della società”. D’altro canto anche negli Usa la riflessione critica su ciò che seguì il Manifesto di Port Huron porta alcuni esponenti del movimento studentesco americano a sottoporre a critica la parola d’ordine del “potere studentesco” (che in Italia comparirà in un famoso documento dell’occupazione di palazzo Campana, cui si contrapporrà il “potere operaio” di Toni Negri) perché questo dovrebbe “significare soprattutto la capacità degli studenti di strappare e difendere quei diritti che permettano loro di organizzare un’intensa azione politica contro gli interessi consolidati e il potere prevalente, non soltanto dall’università, ma anche nella società in generale” (Hal Jacobs e James Petras, Insegnamenti dell’esperienza di Berkeley , 1969; in Il ’68 senza Lenin cit.).

L’ esperienza del movimento studentesco milanese

Ma in questi documenti un richiamo esplicito all’eredità della Rivoluzione di Ottobre non compare. Si fa piuttosto riferimento alle lotte anticoloniali, in particolare alla lotta di liberazione vietnamita, alla rivoluzione cubana e, soprattutto, a quella cinese. Naturalmente l’influenza di gruppi dirigenti preformatisi in esperienze di tipo comunista e socialista all’interno del movimento studentesco hanno accentuato il richiamo alla Rivoluzione d’Ottobre più che in situazioni dove tale influsso non si è fatto direttamente sentire.

Nel caso della mia esperienza nel movimento studentesco milanese ciò è stato molto evidente. Anche troppo se si fa riferimento al richiamo alla figura di Stalin. In realtà lo “stalinismo” del movimento studentesco milanese, per l’esattezza della Statale di Milano, poi diventato Movimento Lavoratori per il Socialismo, era più esteriore che dovuto a profonde convinzioni. E veniva usato per contrapporsi ad altre formazioni, nelle quali, come nel caso di Avanguardia Operaia, la presenza di dirigenti appartenenti al movimento trotzkista internazionale era rilevante. Inoltre il maoismo, per come era conosciuto e conoscibile allora, era considerato il principale punto di riferimento teorico. Si organizzavano corsi di studio sul pensiero di Mao. Si diceva e si scriveva che il compito precipuo del Movimento Studentesco era proprio quello di portare il “Maotsetung- pensiero” – orrenda espressione, ma questa era – tra le masse popolari. E Mao e il gruppo dirigente comunista cinese di allora difendeva la figura di Stalin in contrapposizione con quella dei dirigenti successivi dell’Urss, facendone una vittima del revisionismo internazionale e di quello che i cinesi chiamarono il socialimperialismo, in particolare quando il fronteggiamento fra Cina e Urss assunse anche caratteristiche militari o ad esse molto prossime.

Nelle pubblicazioni che il Movimento produsse lungo gli anni della sua esistenza (come Stalin. Opere Scelte. Edizioni Movimento Studentesco, Milano, 1973) l’attenzione veniva posta su alcuni elementi critici dell’esperienza della costruzione del socialismo in Urss che Stalin stesso, seppure in parte, mise in luce negli ultimi suoi rapporti. Dell’Unione sovietica nata dalla Rivoluzione d’Ottobre si sottolineava soprattutto il contributo dato alla sconfitta del nazifascismo. “Stalingrado”, la celebre canzone degli Stormy Six, nacque in quel clima politico-culturale. Gli stessi componenti del famoso complesso erano membri del movimento studentesco. Veniva soprattutto valorizzata la figura di Georgi Dimitrov, in particolare il suo celebre rapporto al settimo congresso dell’Internazionale comunista nel 1935, che segnò la svolta dalla teoria del socialfascismo a quella dei fronti popolari. Fronte Popolare divenne la testata del mensile, poi settimanale, del movimento milanese e Democrazia Progressiva il titolo della rivista teorica di cui uscirono alcuni numeri. Ci si richiamava esplicitamente all’idea di una Resistenza che non aveva completato il suo compito e che poteva farlo se si fossero ampliati i confini e approfondite le basi della nostra democrazia, difendendo e implementando nella sua interezza la Costituzione, contemporaneamente respingendo colpo su colpo ogni riorganizzazione delle forze fasciste, ogni piega reazionaria e i vari e sanguinosi passi della strategia della tensione. Questo includeva anche la trasformazione dell’Università e della scuola, obiettivo da praticare da subito attraverso quello che chiamammo un uso alternativo parziale delle strutture in particolare universitarie per cercare di dare luogo ad una nuova cultura, nei contenuti e nelle forme di apprendimento e di trasmissione.

Ma tutto ciò imponeva una fuoriuscita del movimento da scuole e università. Da qui il rapporto diretto con il movimento sindacale e la costruzione di squadre di propaganda nei vari quartieri periferici della metropoli milanese. Su questa base il Movimento studentesco milanese, a differenza di altri luoghi in Italia seppe costruire un rapporto positivo e stretto con il movimento sindacale, in particolare quello metalmeccanico: l’unità fra lo studente di massa e l’operaio di serie venne qui coscientemente ricercata e praticata. Tanto più che il sindacato stava subendo una profonda trasformazione con la nascita dei consigli di fabbrica. Che non fossero la stessa cosa dei Soviet del ’17 e neppure di quelli torinesi del biennio rosso, di cui scriveva Antonio Gramsci su L’Ordine Nuovo, ci era ben chiaro, come pure la loro diversità rispetto ai Consigli di gestione del secondo dopoguerra, ma ci era altrettanto evidente che si trattava di un’esperienza profondamente innovativa non solo dell’organizzazione operaia, ma della struttura della democrazia italiana. La democrazia progressiva diveniva così un obiettivo concreto e praticato.

I limiti del movimento del ‘68

Ma se si guarda al quadro complessivo dello stesso movimento studentesco italiano, la cui maggiore durata nel tempo rispetto a tutti gli altri movimenti europei, era essenzialmente dovuta all’incontro con l’innovazione praticata nel movimento operaio dall’esperienza consiliare, non si ha certamente un quadro omogeneo. La sua molla fu certamente l’antiautoritarismo. Nel suo svolgimento questo evidenziò due caratteristiche che nel secondo caso appare come un limite evidente. Per usare le parole di Lucio Magri quel movimento partito nel ’68, che “rappresentava la rivolta di un’intera generazione …era qualcosa di meno della critica del capitalismo in quanto struttura portante del sistema, ma anche qualche cosa di più, perché pretendeva di superare ‘d’un balzo’ tutte le servitù e tutti i vincoli che esso poneva nella vita collettiva e fin nel profondo della vita individuale quotidiana (in questo senso si trovava in sintonia con la Rivoluzione culturale cinese in versione mitizzata).” ( Lucio Magri Il sarto di Ulm. Una possibile storia del Pci, Il Saggiatore, Milano 2009, pag. 209).

Infatti non solo per ragioni di quasi totale contemporaneità il riferimento privilegiato era alla Rivoluzione Culturale. Le citazioni di Mao che più piacevano non erano quelle del tipo “il potere nasce dalla canna del fucile”, quanto “ribellarsi è giusto” o “sparate sul quartiere generale”. K.S. Karol sottolineava che “durante la rivoluzione culturale è stato fortemente ridotto l’apparato del partito e dello Stato” (il manifesto, n.1, 28 aprile 1971). Per quanto l’invasione sovietica della Cecoslovacchia nell’agosto del 1968, lasciasse un segno profondo nella coscienza di molti giovani, la reazione ad essa fu largamente inferiore alle attese. Anche chi non amava i carri armati sovietici non aveva affatto chiaro quale fosse la direttrice che il gruppo dirigente cecoslovacco avesse preso e dove avrebbe portato se fosse stato libero di agire. Che cercasse la fatidica “terza via”, ovvero un socialismo democratico compatibile con libere istituzioni, era noto solo a pochissimi. La preoccupazione era che guardasse a Occidente, a quelle società contro le quali il movimento studentesco si batteva. Se quindi il movimento popolare che portò alla “primavera di Praga” è a tutti gli effetti da considerarsi parte del ’68, nel senso che ne precisava proprio il carattere mondiale dello stesso, è soprattutto vero che Praga fu lasciata sola da tutti i versanti. Come veniva detto nel bello quanto tragico titolo del Manifesto di un anno dopo. Invece dell’esperienza cinese si valorizzava il rifiuto di qualunque tipo di gerarchizzazione burocratizzata, la critica al partito, ai suoi possibili revisionismi o tradimenti, che ben poteva essere utilizzata anche in chiave nostrana, nella polemica crescente nei confronti del Partito comunista italiano, che dopo il tentativo di apertura invero timido, praticato da Luigi Longo, veleggiava verso il compromesso storico.

Tuttavia l’antiautoritarismo ha provocato e lasciato una trasformazione indelebile nei modi di pensare, nelle relazioni sociali e interpersonali, fuori e dentro la famiglia, ha aiutato ed è stato a sua volta prepotentemente sospinto da un più determinato femminismo. Per quanto la carica eversiva del sessantotto sia stata sepolta, malgrado che il capitalismo abbia condotto dagli anni ottanta ai giorni attuali una vera rivoluzione conservatrice, come su questa rivista più volte l’abbiamo chiamata, l’autoritarismo di un tempo non è più stato restaurato negli stessi termini. Le elite hanno poi scelto la strada dell’inclusione passiva, finché hanno potuto, sfruttando margini economici e spazi istituzionali, oppure quella della esclusione e della marginalizzazione, particolarmente prevalenti dagli ultimi anni novanta in poi. Il limite maggiore dell’antiautoritarismo “era però pesante – per tornare ad usare le parole di Lucio Magri – quando e lì dove si scontrava con le architravi del sistema: il modo di produzione economica e lo Stato” (Lucio Magri, Il sarto di Ulm… cit. pag. 210). Ed è proprio qui che torna ad evidenziarsi la distanza e la diversità del ’68 dal ’17. Naturalmente le condizioni storiche e le società sono diversissime. Non vi fu lo sconquasso di una guerra di cui approfittare per rovesciare l’ordine costituito. La fine degli anni sessanta avvicinava alla conclusione dei “trenta anni gloriosi (quasi) del capitalismo”, ma i loro effetti coinvolgenti erano ancora ben visibili. E altro ancora. Ma in più – sarebbe più corretto dire in meno – mancava una direzione politica in grado di guidare un processo di trasformazione, per di più da non risolvere con un solo atto rivoluzionario, cioè la mitica presa di un ipotetico palazzo d’inverno.

L’eredità del ’68 e quella del ‘17

La questione da allora è rimasta irrisolta, almeno nel caso italiano, rovesciatosi completamente rispetto al senso che questa definizione veniva data da studiosi e canalisti internazionali.. Il ’68 ha innestato grandi cambiamenti che non sono morti con lo spegnimento dei movimenti che li hanno provocati. Anzi hanno continuato a lavorare nel profondo della società. Arrighi, Hopkins e Wallenstein individuavano quattro eredità del ‘68 nel loro libro dell’inizio degli anni novanta. Da allora diverse cose sono cambiate, è fin banale dirlo. Tuttavia vale la pena di tornare a riflettere su quanto essi hanno scritto. Secondo loro l’eredità del ’68 è consistita in quattro cambiamenti capaci di influenzare la storia successiva, certamente fino agli anni ottanta, e che possono essere così riassunti. E’ diminuita, malgrado le continue guerre, meglio dire lo stato di “guerra infinita” la capacità di controllo politico sul mondo, “meno che mai sulle regioni periferiche dell’economia mondo”, da parte delle grandi potenze, in particolare degli Usa. In secondo luogo sono cambiati i rapporti di potere tra i gruppi sociali nella stessa vita quotidiana, come ho già sottolineato prima. In terzo luogo è effettivamente mutato il rapporto fra capitale e lavoro, con un recupero di quest’ultimo sul primo sia in termini di distribuzione della ricchezza prodotta, quindi di reddito, sia in termini di diritti e in parte di spazi democratici sullo stesso luogo di lavoro. In quarto luogo si è verificato un sensibile indebolimento del potere statale sulla società civile, il che ha portato anche alla crisi e alla fine di dittature borghesi sia in Europa che in America Latina.

Come si può facilmente notare tutti questi quattro elementi sono stati i punti di attacco della reazione mondiale guidata dal neoliberismo dagli inizi degli anni ottanta in poi. La controprova del carattere rivoluzionario del movimento mondiale del ’68 sta proprio nell’ampiezza e nella potenza delle forze scese in campo per produrre un controcambiamento. La globalizzazione ha dato forza e per un consistente periodo credibilità e capacità di attrazione alla rivoluzione conservatrice del capitale mondiale. Lo shock e la recessione economica cominciata nel 2007 e tutt’altro che risolta, particolarmente per quanto riguarda l’Europa, mentre si sviluppa contemporaneamente un processo di lunga durata di spostamento del baricentro economico-produttivo da ovest ad est, sottolineano la crisi di fondo di questa globalizzazione probabilmente irreversibile. Ne deriva una ripresa di politiche protezioniste e nazionaliste che pur essendo a volte più gridate, specialmente le prime, che praticate sono indicative del cambiamento di fase nello stato, più che nello sviluppo, del sistema capitalistico mondiale.

Nello stesso tempo ipotesi di potere aprire processi rivoluzionari nei paesi chiave dell’economia mondo non sono affatto all’ordine del giorno. L’evoluzione economica e sociale della Cina rende più credibile una interpretazione storica per cui l’esperienza comunista maoista sia stata una grande e fattiva parentesi fra una condizione di arretratezza e quella di un moderno e rampante capitalismo, ove l’elemento di governo del partito unico - grazie alla grande svolta liberalizzatrice in campo economico impressa dalla terza sessione plenaria dell’11° comitato centrale del dicembre del 1978 - nell’economia e nel ruolo del Dragone nella globalizzazione, costituisce un’esperienza inedita, ancora largamente da studiare e comprendere. Quello che un tempo veniva chiamato il modo di produzione asiatico richiede sostanziosi rivisitazioni e aggiornamenti. I processi e gli esiti rivoluzionari che possono verificarsi nelle periferie di questa economia mondo non sarebbero in grado, non avrebbero la forza – esempi ne abbiamo avuti, anche recentemente - per quanto auspicabili e non irrealistici, da soli (il “socialismo in un paese solo” non è una prospettiva allettante, come la storia ci ha insegnato) di capovolgere le tendenze di fondo su scala globale.

Il 1917 oltre che l’esplosione vittoriosa di un processo rivoluzionario con l’instaurazione violentemente contrastata dall’interno e dall’esterno di un’inedita esperienza di organizzazione statuale e della società civile, seppure non priva di aporie che ne hanno determinato il ripiegamento, il tragico declino e la facile caduta, rappresentò anche la rottura dell’unicità dell’organizzazione del mercato capitalista mondiale, la creazione di un “zona liberata”, la fine della prima fase della globalizzazione capitalistica che prese le mosse dagli anni settanta del XIX secolo, secondo la famosa previsione marxiana contenuta in un passo chiave del Manifesto del Partito comunista. Che si possa vivere in un sistema diverso da quello capitalistico, facendo avanzare la ruota della storia e non il contrario, è cosa dimostrata. E non è poco. Che lo si debba fare in modi diversi da quelli che hanno contrassegnato la storia pluridecennale dell’Urss ce lo ha insegnato il suo declino e la sua sconfitta, quasi per autoconsunzione del suo modello, pur senza sottovalutare l’azione corrosiva del capitalismo internazionale, è il problema che abbiamo di fronte. E che probabilmente ci sopravanzerà. Ma porselo è già rifiutarsi di accettare la sconfitta. Quei mesi terribili ed entusiasmanti del 1917, ci hanno insegnato che per trasformare il mondo abbiamo bisogno di un grande movimento di popolo e di un pensiero politico forte, dialetticamente connesso con la molteplicità delle realtà, dei rapporti sociali, delle aspirazioni e dei sentimenti delle donne e degli uomini. A maggior ragione se la dimensione del cambiamento non può essere solo nazionale e ridursi ad un unico atto catartico. E bisogna che movimento e un siffatto pensiero si incontrino tra loro. Non è facile, non è frequente, non è prevedibile tantomeno programmabile. Come diceva Holderlin è come afferrare un fulmine a mani nude.

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