di Giuseppe Luca Scaffidi* - JacobinItalia.

è una Seul sfarzosa, appariscente ed esclusiva, un mondo di sopra ad appannaggio di pochi. È la Seul dei padroni, dei datori di lavoro, della classe dirigente, della supremazia incontrastata degli sfruttatori sulle classi subalterne: una tinozza in cui i quattro membri della famiglia Park (padre, madre e due figli) sguazzano alla perfezione. Non potrebbe essere altrimenti, dato che sembrano possedere tutti quei requisiti di cui, da protocollo, è indispensabile godere per poter venire legittimamente iscritti nei registri dell’élite dominante: vivono in una villa di design maestosa (progettata dal pluripremiato architetto Namgoong Hyeonja), fanno merenda con frutta fresca di stagione, dispongono di un elegante salotto con vista su un giardino privato sconfinato e, soprattutto, delegano alla servitù il disbrigo di tutte quelle faccende che esulano dall’archetipo del perfetto stile di vita altolocato (come cucinare, fare la spesa, dare una mano ai figli con i compiti, addirittura il piacere tipicamente borghese di guidare la propria Mercedes). E poi, decisamente più in basso, c’è un’altra Seul: quella dei servi, il mondo di sotto. Una città abbandonata a sé stessa, ridotta al macero dalle dinamiche dell’austerity, che puzza di piscio e spazzatura avariata, animata da un sottoproletariato affamato di pane – per molti versi simile a quello che popola le borgate romane descritte da Pier Paolo Pasolini nel suo romanzo d’esordio, Ragazzi di vita – che, giorno dopo giorno, è costretto a inventarsi un espediente che possa rivelarsi utile per sbarcare il lunario. 

Parasite, l’ultimo film di Bong Joon-ho (Okja, Mother), vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes del 2019, è soprattutto questo: un film sui servi e sui padroni, ma anche una lucida (e spaventosa) presa di coscienza dell’impossibilità di elaborare una modello alternativo alla società dei consumi e delle disuguaglianze.

Il regista sudcoreano aveva già mostrato una certa sensibilità nei confronti della tematica del conflitto di classe (e dei cortocircuiti insiti tra le trame del tardo capitalismo) in Snowpiercer (2013), sviluppandola però in senso orizzontale: il film è ambientato in un 2031 post-apocalittico in cui i (pochi) sopravvissuti all’avvento di una nuova Era Glaciale sono tutti riuniti a bordo di un treno mosso da un motore a moto perpetuo che gira eternamente attorno alla Terra. In quel caso, il livellamento sociale era determinato dal posizionamento delle classi all’interno dei vagoni (i ricchi davanti, comodamente rintanati in ampie carrozze dotate di ogni tipo di comfort e i poveri in coda, abbandonati alla deriva in una sorta di carro bestiame); in Parasite, invece, la questione della divisione tra i ceti sociali viene esaminata verticalmente: i borghesi sono collocati ad altezze siderali (non è un caso se la villa dei Park domina la città dalla vetta di una collina), mentre i sottoproletari, i reietti, sono posti nei bassifondi della metropoli, in quartieri squallidi e maleodoranti che possono essere raggiunti solamente al prezzo di percorrere in discesa scalinate lunghissime, rendendo l’idea dell’enorme distanza che, nella realtà sudcoreana, separa i piani più infimi da quelli più alti di un ascensore sociale irrimediabilmente rotto. 

Le vicende di Parasite prendono le mosse proprio da questo sottobosco di accattoni, il locus damnationis in cui Kim Ki-taek (Song Kang-ho), sua moglie Gook Moon-gwang (Lee Jung-eun) e i loro due figli, il diciottenne Kim Ki-woo (Choi Woo-shik) e la ventenne Kim Ki-jung (Park So-dam), trascorrono le proprie giornate all’insegna della povertà più estrema. La casa in cui vivono è uno scantinato di pochi metri quadrati – riflesso della propria classe sociale e perfetta antitesi della gigantesca maison de luxe della famiglia Park–, la cui unica vista sull’esterno è data da una vetrata che affaccia su un vicolo cieco frequentemente utilizzato dagli ubriaconi a mo’ di latrina. Il locale è privo di una stanza da bagno (l’unico wc presente in casa è installato alla buona su un piano in legno rialzato), è talmente minuscolo da non consentire alcuno spazio di intimità ed è infestato dagli insetti. 

Sin dalle primissime sequenze, un sottile fil rouge sembra collegare Parasite a un altro film asiatico insignito della Palma d’Oro: Shoplifters, del regista giapponese Hirokazu Kore-eda. In ambedue i casi, le scene iniziali mettono in mostra la drammatica quotidianità di una famiglia che vive ai margini della società e che, nella più completa indifferenza delle istituzioni, combatte contro l’indigenza con tutte le armi che ha a disposizione. Da questo punto di vista, i Kim di Parasite ricordano non poco gli Shibata di Shoplifters. L’arte di arrangiarsi è il loro pane quotidiano. Assemblano centinaia di cartoni per pizza per riuscire a mettere assieme un pasto decente, si arrampicano sui mobili nella speranza di poter raccattare una tacca di Wi-Fi dai (pochi) esercizi commerciali vicini e accettano ben volentieri il rischio di inalare il veleno dei pesticidi che gli operatori diffondono nel quartiere pur di potere usufruire di una disinfestazione gratuita che possa, finalmente, liberarli dagli scarafaggi che fanno capolino nella propria abitazione.

Per i Kim, l’occasione di risalire (temporaneamente) dall’Ade sottoproletaria per osservare da vicino quanto accade nell’Olimpo dell’aristocrazia si palesa quando un amico di Ki-woo, costretto ad abbandonare temporaneamente il paese per intraprendere un periodo di studi all’estero, gli propone di prendere il suo posto di lavoro come maestro d’inglese della figlia maggiore dei Park, Da-hye. Bong Joon-ho utilizza questo escamotage narrativo per mettere in scena una vera e propria apologia dell’intelligenza machiavellica proletaria, in cui i poveri guidano le danze e sono capaci di sfruttare la stupidità dei ricchi per ottenere un miglioramento della propria condizione.

Quelli di Parasite sono dei reietti meravigliosi, sciagurati ma svegli, privi di lavoro ma non di acume. Nelle fasi iniziali, a confermare questo assunto è proprio Ki-woo, il primo parassita ad infiltrarsi nel mondo di sopra. Il suo nuovo impiego non è soltanto l’occasione per rimpinguare le (magre) finanze familiari, ma anche un’opportunità di livellamento sociale inestimabile, l’entry door perfetta per provare a estendere anche ai propri congiunti il privilegio di entrare nelle grazie dei borghesi. 

Dal momento in cui si insinua nella casa dei Park, Ki-woo – senza mai rivelare i propri legami di sangue – ricorre sapientemente al raggiro per fare assumere sua sorella, Ki-jung, come art-therapist del figlio minore, Da Song; subito dopo, i due fratelli costringono al licenziamento l’autista privato e la storica governante della famiglia, rimpiazzandoli rispettivamente con il padre e la madre. La macchinazione sapientemente ordita dai parassiti, almeno in un primo momento, sembra aver sortito i suoi effetti: i Kim cullano l’illusione di aver conquistato il proprio posto al sole. A quel punto lo spettatore – perlomeno quello che non può fare a meno di simpatizzare per i sottoproletari – è dominato da un certo senso di soddisfazione: i poveri, facendo fronte comune, hanno ottenuto la tanto attesa revanche nei confronti dei ricchi, palesando una netta superiorità intellettuale nei loro confronti. L’assemblaggio di cartoni per pizza è solo un ricordo sbiadito: adesso i Kim, che servi sono soltanto per finta, possono contare su ben quattro salari, godere degli ampi spazi della villa, mangiare dallo stesso piatto di padroni e contare sulla loro fiducia incondizionata. 

Almeno fino al terzo atto, quando i Park lasciano momentaneamente l’abitazione per portare in campeggio i figli, l’utopia dei sottoproletari viene spazzata via e la lotta tra classi si trasforma in una famigerata guerra all’interno di una sola classe, quella dei poveri. A scoperchiare il vaso di Pandora è la vecchia governante, Moon-gwang, che una volta appresa la notizia della partenza dei suoi ex datori di lavoro si ripresenta alla porta della villa in piena notte e frantuma l’idillio dei Kim rivelando l’esistenza di un bunker sotterraneo in cui, da oltre quattro anni (e all’insaputa dei Park) suo marito Geun-se vive nascosto come un topo, costretto all’oblio forzato dalle pressioni di alcuni creditori.

A questo punto la tragedia si instilla nella black comedy: Bong Joon-ho racconta un conflitto senza soluzione di continuità, che riflette una visione radicalmente pessimistica della contemporaneità. Nella Seul di Parasite lo spazio per il livellamento sociale è ridotto al lumicino, il proletariato ha smarrito la propria coscienza di classe e la solidarietà è poco più di una fotografia sbiadita, un ideale sacrificato sull’altare dell’individualismo. Non ve n’è più traccia, neppure tra quei ceti meno abbienti che dovrebbero praticarla per riflesso incondizionato ma che, invece, hanno preferito competere tra loro e di imitare i costumi dei ricchi, piuttosto che cooperare per rivalersi su chi sta sopra. 

La scoperta della stanza segreta è il preludio al dispiegarsi della violenza inter-proletaria: il privilegio di continuare a sostare nella magione dei padroni diventa il casus belli di una lotta intestina tra morti di fame. I poveri non mostrano alcun tipo di compassione nei confronti dei propri corrispettivi, anzi, tentano di annientarli con ogni mezzo a disposizione, mettendo in campo il ricatto, lasciandoli senza cibo e acqua, buttandoli giù dalle scale. 

La convinzione del tramonto di ogni speranza in una rivalsa proletaria è ben sintetizzata dal finale del film, quando i Kim, sotto una pioggia torrenziale (che all’interno della villa dei Park veniva avvertiva appena e, anzi, creava quasi un’atmosfera piacevole), compiono una lunga corsa (rigorosamente in discesa) di ritorno verso il proprio quartiere. Al loro arrivo, il seminterrato è completamente allagato: i loro (pochi) averi galleggiano in un mare di melma, il cesso straborda, l’acqua putrida delle fogne inghiotte ogni desiderio di avanzamento di status. Proprio in quel momento, Ki-jung sale sulla tazza del wc e accende una sigaretta, quasi a simboleggiare l’accettazione del fatto compiuto: i poveri possono anche sognare di vivere come i ricchi, ma poveri sono destinati a rimanere.

La Corea della diseguaglianza di Bong Joon-ho è lo specchio dell’intero Occidente capitalista, in cui la distanza tra mondo di sopra e mondo di sotto è talmente marcata da poter essere considerata un tratto endemico. I ricchi invitano i poveri alla reverenza, a «non oltrepassare il confine», praticano una cortesia del tutto artificiosa nei loro confronti per ammansirli e poterne ottenere i servigi («I Park non sono ricchi, ma gentili’; sono gentili perché sono ricchi»): un savoir-faire di pura facciata che cela il più vivo disprezzo. Chi occupa i gradini più bassi della scala sociale è concepito da chi sta in alto alla stregua di un corpo estraneo, una specie altra connotata da un odore peculiare, un tanfo di umidità e saponi a basso prezzo (o, ancora, «di un ravanello vecchio o di uno straccio bollito»), lo stesso aroma che «si sente spesso nella metropolitana», quel puzzo di working class che, secondo il signor Park, è un portato biologico dei sottoproletari come Ki-taek, il capofamiglia dei Kim.

Parafrasando le parole di Bong Joon-ho, «Ci sono ranghi e classi nella nostra società che sono invisibili a occhio nudo. Li teniamo nascosti, lontani dagli occhi, ma la realtà è che ci sono delle linee di classe impossibili da oltrepassare. Penso che questo film mostri le crepe inevitabili che compaiono quando due classi sociali si scontrano nella nostra società sempre più polarizzata».

* Giuseppe Luca Scaffidi è un articolista freelance. È laureato in scienze politiche e internazionali e scrive di attualità e cultura per varie testate, tra cui The Vision, Forbes e Videodrome. 

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