di Francesco Piccioni - Contropiano.

La differenza tra una crisi “normale”, per quanto violenta, e una crisi sistemica è relativamente semplice. Dalla prima si esce e si ricomincia con il solito tran tran, modificando giusto quelle “abitudini del mercato” che si sono rivelate controproducenti. Dalla seconda non si esce se non quando tutto il sistema economico e delle relazioni internazionali abbia disegnato un nuovo equilibrio stabile.

Per capirci, la crisi sistemica della “prima globalizzazione” – fine ‘800-inizi ‘900 – ha prodotto la Prima guerra mondiale e ridisegnato il mondo, ma non in modo stabile. C’è voluta dunque la “Grande crisi del 1929” e poi la Seconda guerra mondiale per fissare un equilibrio incerto – non a caso passato alla storia come “l’equilibrio del terrore” (arsenali atomici contrapposti sufficienti a distruggere più volte il pianeta).

Conosciamo la soluzione poi trovata dalla Storia, con l’implosione dell’Urss e del suo “campo socialista” (che non comprendeva più da decenni la Cina…), e i nuovi “gloriosi 30” che sono terminati definitivamente proprio in questi giorni.

In tempi di crisi sistemica le cose vanno velocissime, come per pianeti e stelle attirati in un buco nero. Impossibile cogliere la traiettoria dei cambiamenti se ci si fissa ad osservarli nei loro caotici spostamenti quotidiani. Impossibile arrivare a definire una linea d’azione politica collettiva all’altezza dei tempi se ci si limita ad attendere il “dopo”; o peggio ancora se ci si chiude nel proprio limitato agire quotidiano (ridotto ormai alle pareti di casa e al funzionamento del modem, sperando che regga), alla “politica a chilometro zero” che è diventata negli ultimi anni l’ultimo rifugio per non essere o sentirsi inutili.

In tempi di crisi sistemica bisogna avere la forza di alzare lo sguardo al di sopra dell’orizzonte degli eventi e intravedere quale “dopo” ci attende. E quanto di quel “dopo” potrà essere segnato dalla nostra azione.

Sforzo tremendo, difficile, persino poco “scientifico”, perché i dati a disposizione non sono mai abbastanza, tanto meno completi e in grado di restituire l’intero. Viene il paragone con il Barone di Munchausen – è letteratura, non storia – che uscva fuori dalle sabbie mobili, lui e il suo cavallo, tirandosi su per il codino che raccoglieva il suoi lunghi capelli.

Un assurdo, per le leggi della fisica. Un azzardo, nell’analisi concreta della situazione concreta. Ma un azzardo necessario proprio perché, se il sistema non tiene più, quel “dopo” sarà il risultato di uno scontro tra molti interessi e molte volontà, ognuna dotata di progetti e di forze per attuarli. E solo chi ha un progetto e costruisce delle forze può sperare che quel risultato non sia lontanissimo – opposto, in genere – ai propri interessi collettivi (di classe, nel nostro caso).

Tutti gli altri assistono al farsi della Storia, subendola.

La lunga premessa serviva a spiegare perché, in tempi di crisi sistemica, da ogni lato delle molte barricate sorgano all’improvviso ragionamenti e contributi che provano a buttare uno sguardo al di là dell’immediato presente – che dura ormai soltanto un giorno – e indovinare “dove andremo a finire”. Tornano insomma in auge i “dialoghi sui massimi sistemi”…

Un esempio come al solito intelligente arriva da Limes, che pubblica online un articolo di Fabrizio Maronta, incentrato su un’analogia assolutamente condivibile: “Il coronavirus e i mercati finanziari: siamo a Sarajevo 1914. La pallottola è la pandemia. L’arciduca Francesco Ferdinando è il neoliberismo”.

Ineccepibile anche l’individuazione del bivio che sta davanti al capitalismo occidentale: “O cambia il sistema o soccombiamo tutti. A partire dall’Europa”.

E’ il “senso comune” che in questi giorni accomuna anche normali “operatori istituzionali” sui mercati finanziari. Per esempio Riccardo Mulone, capo italiano della banca svizzera Ubs, su IlSole24Ore di oggi, secondo cui “Le ripercussioni saranno forti, ma è un’occasione per riformare il sistema”.

Che vuol dire? Che tutti quelli dotati di scienza ed esperienza hanno capito che “non si tornerà come prima”, e che dunque bisogna gettarsi in questo ciclone avendo ben chiaro in mente quel che si vuole in termini di sistema, non solo di interesse immediato (che mai come oggi “sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie”). Vale anche per i “compagni a km zero”, che rischiano seriamente di ritrovarsi a fine ciclone senza più nulla di comprensibile davanti agli occhi. Ossia, foglie cadute.

L’analogia proposta da Limes è efficace, dunque, ma occorre ricordare che ogni guerra si fa almeno in due, e dunque ogni soggetto (sufficientemente rilevante, gli altri non contano molto) gioca per sé.

Il posizionamento geostrategico ed economico del gruppo raccolto in Limes è noto: europeista, neoliberista e atlantico. L’obbiettivo strategico che viene posto con questa analisi è coerente: il superamento del paradigma neoliberista, per disegnare un altro paradigma capitalistico. Il problema, per loro, è che non ce n’è traccia in nessuna linea di pensiero (quello “unico” ha eliminato le alternative, persino dentro l’Accademia), e quindi è un indeterminato “ci vorrebbe…”.

Certo, sono apprezzati “Gli appelli ormai ubiqui, in tutti i settori e tutti i paesi (Stati Uniti compresi), perché i governi si facciano garanti di un’economia che rischia il collasso – buonacome del resto già nel 2008 – sono sintomatici di un tabù che pare infrangersi contro l’onda d’urto dell’incertezza”. Ma fa ancora orrore “il dirigismo” (immancabilmente associato allo “stampo autoritario”). Lo spettro cinese, più che il defunto orso sovietico.

E allora si resta per aria: “Sulla possibilità di trovare altre vie tra i due estremi, l’Europa potrebbe – dovrebbe – avere qualcosa da dire, se riuscisse a proferir verbo”. Perché nell’incertezza di questi giorni almeno una certezza c’è: “O l’Europa finalmente si fa, o si frantuma. In entrambi i casi, questo 2020 non lascerà il tempo che ha trovato.”

I segnali politici, in queste ore, sono altamente schizofrenici, indizio certo di scontri feroci. Ieri pomeriggio il Governatore della Banca Centrale austriaca, Robert Holzmann, se n’era uscito con una dichiarazione che in pochi minuti ha fatto precipitare le quotazioni di Borsa e salire in cielo spread di paesi come l’Italia: “la politica monetaria ha raggiunto i suoi limiti”. Precisando meglio la sua visione “darwinista” quasi nibelungica: “la crisi può essere anche ‘una purificazione’ nella quale il compito dei governi dovrebbe essere di garantire la sopravvivenza delle aziende e il sostentamento delle persone”, ma facendo distinzione fra le “aziende che non sarebbero sopravvissute comunque e quelle che lo avrebbero fatto”. Una ‘pulizia’ che – ha sottolineato – “la politica monetaria negli ultimi anni con tassi di interesse pari a zero e negativi ha in qualche modo interrotto: una crisi può anche servire per venirne fuori più forti”.

Più pesante ancora, per la forza del paese che rappresenta, Isabel Schnabel, membro tedesco del Comitato esecutivo della Bce: “La politica monetaria non può ovviare da sola a questa crisi, stiamo già sfruttando appieno la flessibilità del nostro programma di acquisti”.

Traduzione: non vi aspettate che la Bce faccia molto per tirarvi fuori dai guai, come se la “grande Germania” dell’Anschluss fosse esente dallo tsunami della pandemia.

Subito dopo sia Angela Merkel che la Bce rettificano il tiro, diminuendo – ma non cancellando – il sospetto che il complesso industriale-finanziario tedesco pensi di sfruttare questa crisi per risolvere i propri problemi (Deutsche Bank è un cadavere che cammina, da anni…) fagocitando asset altrui, come è stato con la Grecia.

Christine Lagarde ha dato disposizione di sparare 750 miliardi di euro nel circuito monetario, e stamattina le borse europee si sono abbeverate a questa fornte prendendo una boccata d’ossigeno che durarà un gionro. Così come aveva fatto Wale Street davanti ai 1.000 miliardi di dollari stampati per ordine di Trump (+6% martedì, -6% mercoledì).

Perché è chiaro a tutti gli “operatori di mercato” che il problema non è la liquidità che manca, ma “il cavallo che non beve”. Ossia l’economia reale che era ferma prima della pandemia e che ora si sta bloccando in tutto il mondo (mentre riparte in Cina e un po’ anche nella Corea del Sud). Non paradossalmente, potrebbe essere più utili i 500 miliardi promessi da Trump “direttamente nelle tasche dei cittadini”, di modo che possano consumare anche se i loro datori di lavoro li lasciano a casa o in mezzo alla strada.

Ed è proprio quando tutti devono prendere decisioni eccezionali per tempi eccezionali che “il controllo delle mosse” diventa più difficile. Ogni azione rischia di innescare reazioni imprevedibili, per natura o dimensione.

A differenza della Prima guerra mondiale, qui il “nemico” è un virus apparentemente “uguale per tutti”. Ma in pratica si sta toccando con mano come solo chi ha disegnato un modello in cui l’interesse pubblico prevale su quello privato – non solo la Cina, ma anche parte dell’Asia, oltre a Cuba – è in grado oggi di affrontare la pandemia con il consenso delle larghe masse. Senza cioè mettere in campo quei dispositivi militari che paradossalmente proprio qui – nella ex società aperta – stanno diventando l’unica o prevalente soluzione a un problema che non si sa risolvere (se non chiudi le fabbriche e i luoghi di lavoro, hai voglia a vietare di fare jogging nei prati…).

Dovunque si guardi, insomma, sta avvenendo un terremoto che non lascia in pedi nessuna istituzione, nessuna “pratica consolidata”, nessun “pensiero abitudinario”. buona

In questo senso il neoliberismo è morto, ucciso dal coronavirus. Ma i neoliberisti (le multinazionali produttive e finanziarie) ci sono ancora, non demordono e premono perché si rimetta in piedi il giocattolo che si è definitivamente rotto. La loro egemonia è infranta, la loro forza ancora no. Minacciano di fare molto male a tutti, e stanno facendo l’abitudine a mettere l’esercito nelle strade.

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