di Roberto Bertoni.

Non c'è cosa peggiore per qualunque paese, e per il nostro in particolare, che vedersi progressivamente privato della politica. Un paese senza politica, infatti, è senza dubbio più ignorante, più povero, più violento, colmo di solitudine, di incertezza, di disperazione e del tutto privo di prospettive. Allo stesso modo, un paese senza politica è un posto in cui vengono meno il dialogo, il confronto, la dialettica e dilagano, invece, l'odio, la barbarie, la cattiveria allo stato puro e, purtroppo, le mezze figure, per non dire dei veri e propri quaquaraquà.
È ciò che sta accadendo all'Italia da circa un decennio, diciamo da dopo la caduta del secondo governo Prodi nel 2008, quando sono venute meno le culture e le tradizioni politiche novecentesche e nessuno ha pensato di sostituirle con un pensiero più contemporaneo, più agile, più moderno, magari anche più adatto ai nuovi mezzi di comunicazione e alle esigenze di rapidità che caratterizzano il Ventunesimo secolo, ma comunque forte, profondo, autorevole. Al contrario, da una parte qualcuno si è eccitato all'idea di diventare post-ideologico, ossia nullo, privo di una visione, di un'identità o anche solo di un'idea; dall'altra, qualche genio contemporaneo ha pensato bene di confondere la sacrosanta radicalità delle idee con la barbarie del radicalismo, cominciando ad erigere steccati e ad assumere posizioni che definire demenziali è un eufemismo.
E così, ci troviamo a pochi mesi dalle elezioni con una sinistra in frantumi, reduce da una legislatura fra le peggiori di sempre, incapace di fare fronte comune persino sui pochi temi che sarebbero il minimo sindacale per qualunque forza progressista e ostaggio della propria vaghezza culturale, della propria assenza di pensiero, di una classe dirigente complessivamente rissosa, inadeguata, intrisa di personalismi e manie di protagonismo che rendono impossibile sedersi intorno a un tavolo e discutere e, peggio ancora,  prigioniera di quella furia distruttiva e nichilista che abbiamo sempre rimproverato a Renzi ma che, purtroppo, non è una sua proregativa esclusiva.
Assistiamo, ad esempio, ad una rilettura insensata dell'esperienza dell'Ulivo. Ora, che la sinistra abbia commesso una miriade di errori, che sia stata globalmente subalterna alla destra e al pensiero unico liberista, che il pacchetto Treu abbia inaugurato una stagione di precarizzazione del mondo del lavoro che ci ha condotto dritti fino al Jobs Act e che il renzismo non sia figlio del caso ma frutto di un lungo percorso di degenerazione seguito alla caduta del Muro di Berlino e all'esaurirsi dell'eredità del comunismo italiano, non c'è alcun dubbio. Ciò premesso, insultare Prodi e Andreatta, rinnegare uno dei migliori governi di sempre, attaccare l'Europa inseguendo Grillo e Salvini, proporre l'uscita dall'euro e lasciarsi andare ad un estremismo inconcludente che nulla ha a che spartire con la via maestra indicata da personalità come Corbyn e Sanders è puro autolesionismo.
Criticare chi si riconosce nell'idea di una sinistra liberale e azionista, poi, significa rifiutare l'apporto critico e il portato ideologico di Bobbio e Gobetti, dei fratelli Rosselli e di Giustizia e Libertà, calpestando anche quella Costituzione che abbiamo faticosamente difeso un anno fa.
L'amara realtà è che siamo al cospetto di personalità politiche prive del valore della complessità, sostanzialmente digiune di cultura storica, incapaci di porre la contemporaneità in un contesto più ampio, convinte che tutto si compia nel proprio percorso di vita e, di conseguenza, incapaci di andare al di là di se stesse; il che fa il paio con una sinistra che parla di lavoro ma non ne capisce le evoluzioni, non ha presente la lezione di Bruno Trentin, non comprende il valore di una storia che si rinnova e si mette continuamente in movimento, senza divenire statica o fermarsi solo per compiacere quanti non sono in grado di stare al passo coi tempi e di interpretarli con la dovuta lucidità.
Questo disastro avviene mentre l'OCSE ci informa che siamo un Paese con pochi laureati, troppe risorse sottoutilizzate, un modello di sviluppo inadatto alla modernità e per nulla intenzionato a rinnovarsi se non comprimendo drammaticamente le tutele e i diritti dei lavoratori, dunque un Paese condannato ad un inesorabile declino.
Un Paese senza, pertanto: senza dignità, senza speranza, senza garanzie, senza il senso della vergogna, senza una missione civile e condannato fra qualche mese ad assistere alle elezioni più inutili di sempre, per giunta, probabilmente, segnate dalla terza legge elettorale incostituzionale approvata in dodici anni.
Un disastro frutto della dissoluzione della politica, della pretesa che basti la tecnica e, soprattutto, che essa sia neutra, di slogan ingannevoli e di luoghi comuni ingannatori come quello della meritocrazia: un'aberrazione, quest'ultima, che non ha nulla a che spartire con il merito, così come l'egualitarismo tipico dei social network non ha nulla a che spartire con l'uguaglianza figlia del pensiero illuminista della Rivoluzione francese. La confusione e il baratro, del resto, procedono spesso di pari passo, con l'aggravante che, al momento, non si vedono tangibili segnali di ribellione.

 

 

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