di Andrea Roventini* - JacobinItalia.

Quest’estate le conseguenze del riscaldamento climatico hanno spesso occupato le prime pagine dei giornali e le discussioni sui social network. Non solo per gli incendi che hanno piagato la foresta Amazzonica, ma anche per quelli che hanno bruciato la Siberia, le eccezionali ondate di caldo che si sono registrate in città come Parigi, con punte vicine ai 45° C, o in Australia e India con temperature sopra i 50° C, e per finire l’uragano Dorian che ha portato distruzioni nei Caraibi e negli Stati uniti sudorientali. 

Tuttavia, l’impatto del cambiamento climatico non porta solo a un aumento delle temperature e a un’intensificazione degli eventi estremi (ondate di calore, tropicalizzazione dei temporali), ma aumenta anche la variabilità climatica. L’instabilità climatica implica, come nel Trono di Spade, che l’inverno può arrivare inaspettatamente, con conseguenze devastanti per la produzione agricola. Di fronte a questi fenomeni, è farsesco che certi giornalisti o politici minimizzino i rischi del cambiamento climatico per le temperature rigide che si registrano in alcuni giorno dell’inverno in Italia o negli Stati uniti. Le proiezioni all’anno 2100 dell’Agenzia Europea dell’Ambiente indicano che se non combatteremo efficacemente il riscaldamento climatico, tutta l’Europa sperimenterà forti aumenti delle temperature, ma l’area mediterranea sarà colpita da periodi estremi di siccità, mentre le precipitazioni si intensificheranno nelle regioni centrali e orientali.

Purtroppo, in mancanza di interventi tempestivi, il peggio deve ancora avvenire. Lo scorso anno, un articolo pubblicato su Pnas, uno tra i più influenti giornali scientifici insieme a Science e Nature, ha avuto un forte impatto mediatico avvertendo che siamo vicini a un punto di non ritorno per il nostro Pianeta. Perché? La Terra è un sistema complesso dove anche un aumento limitato della temperatura vicino ai 2° C., soglia fissata dalla conferenza internazionale sul clima Cop21 di Parigi, potrebbe non essere sufficiente a evitare l’innesco di molteplici reazioni a catena ed effetti domino che trasformerebbero il nostro Pianeta in una gigantesca serra, con aumenti continuati e irreversibili della temperatura. Per esempio, lo scioglimento dei ghiacci della Groenlandia e dell’Antartide, riducendo la salinità e la temperatura dell’acqua circostante, potrebbe modificare le correnti oceaniche, accelerando a sua volta lo scioglimento del permafrost con il conseguente rilascio del gas metano intrappolato, con un ulteriore accelerazione del riscaldamento del clima.

Di fronte a questi rischi immani che potrebbero portare a estinzioni di massa, l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura a 1,5° C, come suggerito dall’accordo di Parigi, sembrerebbe una scelta saggia. È proprio il caso di dire: perché far giocare le nostre generazioni future con il fuoco? Purtroppo, i progressi dei Paesi verso questo obiettivo sono al momento insufficienti. La giustificazione principale che viene addotta è che raggiungere l’obiettivo di 1.5° C comporta tagli drastici alle emissioni di gas serra troppo costosi per le imprese, le famiglie e i governi. Infatti, secondo il rapporto del 2018 dell’IPcc – il panel intergovernativo dell’Onu sul cambiamento climatico – per raggiungere il target di 1.5° C si devono dimezzare le emissioni entro il 2030 ed azzerarle per il 2050.    

L’economia standard del cambiamento climatico

La scelta di dispiegare politiche per combattere il riscaldamento climatico è solitamente basata su analisi costi-benefici, di cui gli economisti sono i campioni mondiali. Ogni intervento dovrebbe infatti essere basato confrontando il costo di misure come la carbon tax o standard più rigidi di emissioni, con il valore economico dei possibili benefici futuri ottenuti dal contenimento dell’aumento della temperatura. Ma come è possibile confrontare i costi misurati come perdite di consumo presenti e future con i benefici derivanti dall’evitare estinzioni di massa, dall’impedire che Venezia o gli atolli di Kiribati siano sommersi dal mare o dal salvare migliaia di vite umane? Alcuni economisti apparentemente ci riescono, per esempio confrontando la «disponibilità a pagare» per evitare eventi catastrofici con il «valore statistico» di una vita umana. Da economista e da cittadino del mondo penso che questo tipo di calcoli siano fuorvianti o peggio pericolosi.

Il sugo della storia è di non lasciare la lotta al cambiamento climatico nelle mani degli economisti! O meglio, alla maggior parte degli economisti che seguono le teorie standard su cui si fondano le analisi costi e benefici. Un cambio di paradigma nella scienza economica, che consideri l’economia come un sistema complesso, può invece permettere di apprezzare i vantaggi derivanti dall’arrestare il riscaldamento climatico a 1,5° C e di progettare un insieme di politiche per raggiungere questo obiettivo.

Dato che il sasso è stato lanciato, meglio mostrare la mano. Il paradigma teorico dominante si riferisce sostanzialmente alla scuola marginalista che ha tra i suoi capisaldi la teoria dell’utilità di Bentham (1789) per cui gli agenti decidono quanto consumare e lavorare comparando i benefici (salario, quanti beni e servizi possono comprare) con i costi (lavorare è faticoso). Un individuo razionale sceglierà quanto lavorare e consumare in modo che la sua utilità individuale sia massima, cioè la differenza tra i benefici e i costi sia la più ampia possibile. Allo stesso modo le imprese decideranno quanto produrre, investire e assumere sulla base della massimizzazione dei loro profitti (ricavi meno costi). Assumendo che ci sia un consumatore/lavoratore che rappresenti tutta la collettività si può far corrispondere il benessere della società all’utilità di questo individuo rappresentativo, che rappresenterebbe la società. E si può mostrare che i mercati concorrenziali permettono di raggiungere il massimo benessere sociale. Naturalmente se i mercati funzionano «bene», ogni intervento ingiustificato da parte dello stato o dai corpi intermedi, come i sindacati, riduce l’utilità dei consumatori/lavoratori e i profitti delle imprese. Per chiudere il cerchio, per confrontare i costi e i benefici presenti con quelli futuri si tiene conto del rischio attribuendo una probabilità a ogni evento futuro assumendo di conoscere il modello probabilistico sottostante. Come alla roulette non si sa se la pallina si fermerà sul nero o sul rosso, ma la probabilità di ogni evento è pari al 50%.

Una volta inforcati questi occhiali teorici, come si può giustificare l’intervento pubblico per contrastare il riscaldamento climatico? Invocando l’esistenza di un fallimento di mercato. Il cambiamento climatico, come l’inquinamento, sono infatti un’esternalità negativa, cioè le imprese (e i consumatori) quando massimizzano i loro profitti non tengono conto che le loro scelte provocano un danno alla collettività. Per esempio, se l’elettricità prodotta con fonti rinnovabili costa di più di quella generata con il carbone, le imprese razionali sceglieranno la seconda infischiandosene delle enormi emissioni di gas serra. L’esistenza di enormi esternalità negative giustifica quindi l’intervento pubblico che si dispiegherà principalmente attraverso misure di mercato che modifichino gli incentivi delle imprese e dei consumatori a inquinare, come, ad esempio, la carbon tax o sussidi a favore delle fonti rinnovabili o del risparmio energetico.

Apparentemente, il cerchio si chiude e la teoria economica neoclassica o standard offre una spiegazione coerente e una serie di interventi pubblici «amici del mercato» per combattere il riscaldamento climatico. Ma come si dice, il diavolo fa le pentole senza i coperchi e in questo caso pure senza i manici. Infatti, dato che in questo paradigma teorico, «l’economia è la scienza che studia la condotta umana nel momento in cui, data una graduatoria di obiettivi, si devono operare delle scelte su mezzi scarsi applicabili a usi alternativi» (Robbins, 1932), ogni politica pubblica per contrastare il cambiamento climatico riduce il benessere sociale perché interferisce con il funzionamento dei mercati, anche in presenza di enormi esternalità negative. Quindi nel quadro teorico idilliaco della teoria neoclassica marginalista, dove i mercati garantiscono sempre il massimo benessere, si tratta di scegliere il male minore tra le conseguenze future del riscaldamento climatico e i costi attuali degli interventi pubblici necessari per combatterlo.

Ecco quindi perché in economia c’è un’ossessione per le analisi costi/benefici, che si riflette nei modelli Iam (Integrated Assessment Models). Ad esempio, secondo il modello Dice, sviluppato dal premio Nobel per l’economia William Nordhaus, le politiche pubbliche ottimali, cioè quelle che trovano il giusto bilanciamento tra costi presenti e futuri, dovrebbero permettere alla temperatura di crescere di 3,5° C entro il 2100. Dato che siamo ben lontani dal limite di 1.5° C consigliato dalla comunità scientifica internazionale, ne consegue che, secondo questi modelli, i costi economici delle politiche pubbliche per limitare le emissioni di gas serra potrebbero essere molto alti. Questi risultati naturalmente avvalorano la tesi di politici come il presidente statunitense Trump o quello brasiliano Bolsonaro che, usando un eufemismo, sono riluttanti a impegnare i loro governi nella lotta al riscaldamento climatico.

La metodologia neoclassica standard, basata sull’analisi costi/benefici e politiche di abbattimento ottimali giustificate da fallimenti di mercato, è una camicia di forza che mal si adatta ad analizzare fenomeni complessi come la co-evoluzione dell’economia e del cambiamento climatico, che sono influenzati dall’innovazione e dal cambiamento tecnologico, da un alto grado di incertezza, dalla possibilità di eventi climatici rari, ma estremi, e da reazioni climatiche a catena che possono portare il nostro pianeta a punti di non ritorno. L’evoluzione tecnologica sta permettendo di sviluppare nuove tecnologie verdi che potrebbero consentire di contrastare il riscaldamento climatico senza danneggiare la crescita economica. Per esempio, secondo Bloomberg New Energy Finance, il costo dei pannelli solari e delle turbine eoliche è calato rispettivamente di più del 70% e di circa il 60% dal 2010, mentre il costo delle batterie si è già ridotto del 20%. Questo sviluppo tecnologico porterà a cambiamenti strutturali nelle economie, creando nuove industrie, imprese e posti di lavoro verdi, ma accelerando il declino di alcuni settori tradizionali legati ad esempio ai combustibili fossili. Tutto avverrà durante periodi in cui gli eventi climatici rari, ma catastrofici, si intensificheranno. In questo contesto, le imprese, gli istituti finanziari e i governi devono prendere decisioni tempestivamente se vogliono azzerare le emissioni di gas serra entro il 2050. Ma queste scelte devono essere intraprese in un quadro di incertezza estrema dove, a causa del progresso tecnologico, dei cambiamenti strutturali delle economie e degli effetti non lineari del riscaldamento climatico, non è possibile assegnare una probabilità a scenari futuri. E quindi le decisioni non possono avvenire rispettando i crismi di una buona analisi costi-benefici.

L’economia e il clima sono sistemi complessi

Bisogna cambiare il paradigma teorico sottostante e studiare la co-evoluzione del cambiamento climatico e dell’economia, considerando quest’ultima come un sistema complesso in evoluzione, dove i fenomeni macro come la crescita economica e il riscaldamento climatico sono analizzati partendo dalle interazioni micro tra imprese, lavoratori, consumatori, banche eterogenee nei diversi mercati. Dato che gli agenti devono prendere decisioni in condizioni di forte incertezza in economie la cui struttura cambia continuamente per molteplici shock tecnologici e climatici, le istituzioni e le politiche pubbliche hanno un ruolo rilevante che va al di là di un’analisi costi-benefici giustificata da fallimenti di mercato. In questo contesto teorico, non ha senso discutere ogni intervento di politica economica sulla base di un’analisi costi-benefici.

Se il mondo è un colossale fallimento di mercato che si avvia verso una catastrofe climatica, i governi non devono limitarsi a mettere pezze e rattoppi qua e là, ma devono assumere attivamente un ruolo di guida. Già nel 1926, nel saggio The End of Laissez-Faire, Keynes scriveva che «l’importante per il governo non è fare le cose che gli individui stanno già facendo, e farle un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare le cose che al presente non vengono fatte per niente». Più che occuparsi di fallimenti di mercato, i governi devono modificare i mercati e crearne di nuovi. E lo devono fare molto presto, se non si vuole pregiudicare il futuro di quanti stanno scioperando in questi giorni per il clima e il diritto al futuro per sé e le generazioni future. È meglio un po’ di debito pubblico extra che estinguersi! 

Che cosa si può fare in concreto se si adotta un approccio complesso all’economia? Il primo passo, in linea con una riunione degli alcolisti anonimi, è riconoscere che i mercati da soli non riusciranno a risolvere il problema del riscaldamento climatico senza interventi pubblici. Inoltre, le politiche pubbliche non devono essere necessariamente amiche del mercato. Infatti, gli interventi che modificano i prezzi relativi, come la carbon tax e i sussidi per le tecnologie verdi, non sono sufficienti per raggiungere una crescita a zero emissioni. Come già mostrato da Weitzman nel lontano 1974, gli interventi pubblici che influenzano le quantità invece che i prezzi possono essere a volte più efficaci. Un caso esemplare è il riscaldamento climatico, dove interventi pubblici di «command-and-control» che impongano limiti stringenti alle emissioni e standard ambientali rigidi (es. vietare la vendita di autoveicoli a benzina e diesel a partire dal 2030; obbligare a riciclare tutta la plastica) possono funzionare molto bene anche attraverso l’influenza che esercitano sullo sviluppo tecnologico. La scelta recente del Regno Unito di fissare per legge il limite di zero emissioni di gas serra per il 2050 va certamente in questa direzione. La lotta al cambiamento climatico richiede quindi un approccio eclettico basato su diversi strumenti come la carbon tax, sussidi per la tecnologia verde, limiti di emissioni, standard ambientali, etc.

Ma l’intervento pubblico non deve limitarsi solo a divieti e a interventi di politica fiscale. È necessaria una nuova stagione di politiche industriali a supporto dell’innovazione. Questo è il secondo passo. Gli interventi pubblici non devono essere generalizzati, ma mission-oriented, cioè devono essere finalizzati a risolvere la sfida del cambiamento climatico con l’obiettivo di azzerare le emissioni entro il 2050. La storia ci offre diversi esempi di politiche d’innovazione «missionarie» che hanno funzionato molto bene, come ad esempio quella lanciata dal presidente Kennedy per portare l’uomo sulla Luna. Le politiche mission-oriented richiedono uno Stato Innovatore (e a volte imprenditore) come ben spiegato da Mariana Mazzucato. Infatti, come per la creazione di Internet, l’attuale sfida tecnologica verde richiede processi di coordinamento e direzioni che non possono essere realizzati dal mercato. Molte tecnologie per vincere la sfida del cambiamento climatico sono già disponibili, ma altre devono essere migliorate o realizzate, come ad esempio le batterie o l’utilizzo massivo dell’idrogeno nei processi produttivi e nei trasporti. Ci vuole quindi uno Stato Innovatore Verde che crei partnership con le imprese private, le università, i centri di ricerca e promuova lo sviluppo trasversale di tecnologie in diverse industrie per trasformare la nostra economia e crescere in maniera sostenibile entro il 2050. Non ha senso sottoporre le politiche mission-oriented verdi a un’analisi costi-benefici, bisogna orientarle, programmarle, indirizzarle.

Ma se pedantemente si volesse compiere questo esercizio, il bilancio non potrebbe che essere positivo, dato che queste politiche trasformerebbero la struttura dell’economia, promuovendo la creazione e la diffusione di nuove tecnologie, sostenendo la nascita di nuove imprese e di nuovi settori industriali, con un aumento dell’occupazione, della produttività e del Pil. Se si volesse utilizzare un termine anglossassone per fare un po’ i fighetti, si potrebbe dire che le politiche mission-oriented verdi sono win-win, perché consentono di fronteggiare la minaccia del riscaldamento climatico rilanciando la crescita sostenibile delle economie. Per fortuna che la Commissione Europea se ne sta rendendo conto velocemente – sebbene il come e dove ciò sarà indirizzato politicamente è tutto da vedere e da analizzare all’interno dei rapporti di forza esistenti nella governance europea –, uscendo fuori dal coro degli economisti ossessionati dalle analisi costi-benefici. Il nuovo programma della Commissione Horizon Europe a sostegno della ricerca e dell’innovazione sarà organizzato per missioni, tra le quali la sostenibilità e la lotta al cambiamento climatico hanno un ruolo fondamentale. Inoltre, una delle priorità nell’agenda della nuova Presidente della Commissione Ursula von der Leyen è la realizzazione di un European Green Deal.

Il terzo passo riguarda il ruolo della finanza, dei mercati finanziari e della politica monetaria. L’attività di ricerca e sviluppo per le nuove tecnologie verdi deve essere finanziata. Di nuovo, dato l’alto grado di incertezza, il mercato non ce la fa a finanziare le prime fasi della ricerca e l’intervento pubblico ha un ruolo fondamentale. In quest’ottica, banche di sviluppo nazionali ed europee possono esercitare un ruolo impportante, così come il nuovo programma InvestEU della Commissione europea. Anche le banche centrali possono contribuire dato che il cambiamento climatico pone una minaccia alla stabilità finanziaria. I diversi programma di alleggerimento quantitativo potrebbero avere un’impronta verde (Green Quantitative Easing) per facilitare la transizione verso una crescita a zero emissioni.  

Combattere la disuguaglianza e il cambiamento climatico: il Green New Deal

Gli interventi proposti fanno ovviamente parte del più ampio Green New Deal che è al centro del dibattito politico negli Stati uniti e in diversi paesi europei, anche se ancora ai margini delle ricerche empiriche e teoriche degli economisti. C’è però una dimensione fondamentale contemplata nel Gnd che non è stata ancora discussa: la lotta alla disuguaglianza. Il lavoro di economisti come Atkinson, Piketty, Saez e Zucman ha documentato come la disuguaglianza di reddito e di ricchezza siano cresciute incessantemente negli ultimi 40-50 anni. La disuguaglianza può minacciare la stabilità delle nostre economie e compromettere la nostra crescita futura, come pure evidenziato da alcuni economisti del Fondo monetario internazionale. In questo quadro, le politiche verdi per una crescita a zero emissioni possono aumentare ulteriormente la disuguaglianza, ad esempio attraverso imposte regressive sui carburanti o la perdita di posti di lavoro in industrie inquinanti. Non tenere conto degli effetti redistributivi delle politiche è iniquo e può portare a proteste popolari come quelle dei Gilet Gialli che hanno scosso recentemente la Francia. Per questo motivo, il Green New Deal si propone di disegnare un insieme di politiche economiche che promuovano una crescita sostenibile e inclusiva. Tali politiche non possono essere progettate con la cassetta degli attrezzi dell’economia tradizionale, ma è possibile se si considera l’economia come un sistema complesso.

L’economia politica fu definita come la scienza triste. Ma quando si discute di riscaldamento climatico, gli economisti possono non essere i soliti menagrami e dare un messaggio di speranza ai bambini, giovani e adulti che stanno scioperando il tutto il mondo per clima. Basta cambiare paradigma e uscire da una logica conservatrice imperniata sui mercati e sulle analisi costi-benefici, per considerare l’economia come un sistema complesso, dove gli interventi pubblici e un ruolo attivo dello stato sono necessari per arrivare a zero emissioni entro il 2050 e contenere l’aumento della temperatura a 1,5° C. La crescita sostenibile è possibile e secondo stime autorevoli, richiede una spesa annuale tra 1% e il 2% del Pil mondiale. Non si tratta di costi, ma di investimenti per trasformare le nostre economie e inaugurare un nuovo modello di crescita sostenibile e inclusiva guidata dall’innovazione.

*Andrea Roventini è professore associato alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa.

 

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