di Roberto Bertoni.

Sto con Mattarella perché stare con il presidente della Repubblica, mai come in quest'occasione, significa stare dalla parte della legalità, della giustizia e del rispetto delle regole democratiche e costituzionali.
Sto con Mattarella perché ne ho apprezzato la fermezza, il senso della misura, la sobrietà e l'attenzione nei confronti di tutte le forze politiche, comprese le peggiori e le più improbabili, in una stagione nella quale è venuta meno ogni dignità e, con essa, si è perso anche il galateo istituzionale e quel minimo di garbo che sempre dovrebbe accompagnare coloro che assumono una carica pubblica.
Ma, soprattutto, sto con Mattarella perché è un uomo solo, drammaticamente solo, in balia di una situazione pressoché impossibile da gestire, abbandonato anche da quelle forze che un tempo gli sarebbero state vicine senza compiere strumentalizzazioni, indebolito da una crisi che non è certo solo economica, per il quale si propone addirittura un indegno e risibile impeachment: un istituto che non esiste nel quadro costituzionale italiano, a differenza della messa in stato d'accusa per alto tradimento, a sua volta ridicola in quanto qui gli unici a tradire sono stati i due presunti vincitori dello scorso 4 marzo.
Hanno tradito i propri elettori, non riuscendo a condurre al governo le idee per cui erano stati copiosamente votati: molte di quelle idee si sono, infatti, dimostrate inattuabili, altre sarebbero state persino buone ma Di Maio ha preferito lasciarsi portare a spasso dal cinismo di Salvini, fino a capire troppo tardi cosa volesse davvero il leader leghista.
Salvini è un soggetto sul quale preferisco non esprimermi. Mi affido al silenzio e all'osservazione delle sue mosse, dei suoi atteggiamenti e del suo curriculum politico e istituzionale per metterlo di fronte alle responsabilità atroci che gravano sulla sua testa. Salvini non ha mai voluto governare e forse non vuole tuttora. Salvini persegue un disegno di potere senza potere, e in questo falò di vanità variamente espresse e assortite finisce col bruciare il destino di un Paese già fiaccato da mille difficoltà e più che mai bisognoso di governanti che se ne prendano cura con attenzione e rispetto, a cominciare dalle esigenze degli ultimi, dei deboli e di coloro che hanno bisogno di veder tutelati i propri risparmi, senza disfide di Barletta con gli investitori internazionali che, ovviamente, possono travolgerci.
Di Maio ha sbagliato tutto o quasi, e il suo principale errore è stato non comprendere la propria base elettorale, la sua composizione, i suoi desideri. Di Maio è stato votato da milioni di cittadini che un tempo votavano a sinistra ma che in questo PD non ci si riconoscono più, che non gli credono, non lo accettano, non lo sopportano, lo considerano, non a torto, responsabile di scelte disastrose e contiguo a quei poteri lobbistici che tanto male hanno arrecato storicamente al nostro Paese.
Di Maio ha sbagliato a fidarsi di Salvini, ha sbagliato a non offrire un'identità chiara e definita al proprio soggetto politico, ha sbagliato a credersi il più furbo di tutti quando, naturalmente, peccava di inesperienza, infine ha scelto la strada peggiore, quella dalla quale non c'è ritorno, arrivando a straparlare di impeachment nei confronti del Capo dello Stato e ad aizzare contro di esso un'intera piazza. Le folle aizzate contro le istituzioni ricordano stagioni della nostra vicenda nazionale che non intendo rievocare: ci tengo, tuttavia, a ricordare ai protagonisti di questa fase pecoreccia e cialtrona della nostra storia come si conclusero quelle avventure, iniziate con toni non dissimili da quelli eversivi che si sono sentiti nelle ultime ore, in piazza e sui social network.
Del PD preferisco non occuparmi nemmeno. Un partito mai nato o, comunque, fallito, travolto dalla mancanza di un pensiero della crisi, da un'assenza di identità e di visione del mondo, dalle smisurate ambizioni di un gruppo di potere che si commenta da solo, da troppi hashtag e troppe dichiarazioni senza capo né coda, da una gestione del governo e delle istituzioni che ha disgustato la sua base storica e fatto indignare milioni di persone, compresa la parte migliore di questo Paese che mai avrebbe creduto, un tempo, di doversi distaccare da quella che considerava, comunque, casa propria.
Il rifiuto di accettare anche solo un dialogo con i 5 Stelle, prima che Di Maio si mettesse a delirare e a dare il peggio di sé, costituisce un altro falò delle vanità che un giorno sarà studiato sui libri di storia e portato a testimonianza di come non si dovrebbe mai condurre un partito e una comunità nel suo insieme.
L'amara verità è che queste tre forze politiche hanno spudoratamente mentito: sull'euro, sulle loro effettive intenzioni, su cosa vorrebbero fare in futuro e su ciò che hanno fatto in passato. Hanno mentito in parte perché non sanno uscire dalla loro propaganda condotta sulla pelle della Nazione, in parte perché non hanno ben chiara la direzione da seguire, trattandosi di soggetti che concepiscono la politica e la vita unicamente nell'immediato, senza un punto di vista che vada al di là dell'oggi, senza prospettive a lungo termine, senza quei "pensieri lunghi" di cui la vita pubblica ha bisogno per non trasformarsi in mero cinismo e in squallida gestione di un potere che, oltretutto, ormai alberga altrove.
Mattarella ha pagato il fatto di essere un uomo di prima, un uomo nato e cresciuto in una stagione diversa, un uomo abituato a considerare sacra la parola date e ancor più sacre le istituzioni, convinto che chiunque, una volta al loro interno, avrebbe avvertito il senso del dovere e tutta la gravità del proprio ruolo, in un momento in cui non è consentito scherzare.
Come andrà a finire questa storiaccia è presto per dirlo. L'unica certezza è che Cottarelli, chiamato alla disperata dopo il fallimento del tentativo Conte, non avrà la fiducia in Parlamento e, dunque, si tornerà a votare in un clima maledetto, al termine di un'estate che sembra già finita prima ancora di cominciare, stanca, straziante, perduta, come se stessimo rivivendo una sorta di 1943 a settantacinque anni di distanza.
I giorni che ci separano dal voto ricordano, difatti, quelli che separarono il 25 luglio dall'8 settembre, in bilico tra la fine di un mondo e l'abisso da cui solo il coraggio, il sangue e la grandezza di chi animò la Resistenza ci seppe riscattare.
È la fine di un'epoca, la fine di tutto, l'addio ad ogni speranza e ad ogni concreta prospettiva di riscossa. L'unico personaggio in grado di non farci definitivamente affondare è il presidente Mattarella, per questo la richiesta di messa in stato d'accusa equivale, anche se i promotori sembrano non rendersene conto, ad un assalto alle istituzioni i cui contorni sono chiarissimi e storicamente nefasti.
 

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