di Alfonso Gianni - Transform! Italia.

Che non si sarebbe trattato di un reddito di cittadinanza nel vero senso della parola, lo aveva già detto, bisogna riconoscere con onestà intellettuale, il Prof Pasquale Tridico, economista di Roma Tre ed indicato dal leader del M5Stelle Luigi Di Maio come il ministro del lavoro del governo nascente. Lo stesso Tridico che ha poi pubblicamente preso le distanze dai 5 Stelle e dal patto di governo con la Lega non solo per motivi ideologici – come lui stesso ha detto in una intervista a un quotidiano – ma anche perché considera peggiorativo il quadro che emerge sul tema lavoro, non essendoci né la cancellazione del Jobs Act, né la reintroduzione dell’articolo 18 o comunque di misure di tutela contro i licenziamenti ingiustificati. La proposta che sarebbe stata inserita nel programma di governo avanzato dai pentastellati altro non era che un reddito di inserimento allargato nella platea dei fruitori e potenziato dal punto di vista economico. Non poca cosa, intendiamoci. Ma del tutto diversa da quanto era stato promesso in campagna elettorale.

Quello che poi è stato scritto nel “contratto” di governo – una terminologia che già rivela una concezione privatistica dei rapporti politici ed istituzionali – è ancora più riduttivo. Al punto 19 si legge infatti che “la misura si configura come uno strumento di sostegno al reddito per i cittadini italiani che versano in condizione di bisogno…l’ammontare è fissato in 780,00 euro mensili per persona singola, parametrato sulla base Ocse per nuclei famigliari più numerosi … l’erogazione del reddito di cittadinanza (!?) presuppone un impegno attivo del beneficiario che dovrà aderire alle offerte di lavoro provenienti dai centri per l’impiego (massimo tre proposte nell’arco temporale di due anni), con decadenza del beneficio in caso di rifiuto allo svolgimento dell’attività lavorativa richiesta”.

Come ben si vede non siamo di fronte a un reddito universale, visto che viene dato solo a chi è privo di lavoro e in condizioni di bisogno, né tantomeno incondizionato, dal momento che qui sussistono ben due condizioni: la prima è che si accetti un’occasione di lavoro che i non efficientissimi centri per l’impiego dovrebbero offrire per non più di tre volte; la seconda è che questa offerta deve avvenire in una finestra temporale non superiore ai due anni. Siamo quindi in pieno regime di workfare, molto lontani non solo dalla definizione di reddito di cittadinanza universale e incondizionato, ma anche da alcune esperienze che si stanno sviluppando in diverse parti del mondo.

Ad esempio in Finlandia, anch’essa guidata da un governo di centrodestra, è in corso una sperimentazione della durata di due anni di un effettivo basic income per duemila cittadini inseriti nelle liste di disoccupazione, di età compresa fra i 25 e i 58 anni, scelti a caso tra i 175mila che beneficiano di sussidi statali. L’ammontare del reddito corrisposto è di 560 euro al mese. Ma la cosa più interessante è che tale reddito può essere percepito anche se nel frattempo quei cittadini hanno trovato un lavoro. Il che significa naturalmente che non sono tenuti ad accettare un lavoro qualsiasi, non pendendo su di essi il pericolo della interruzione per tale ragione del reddito di cittadinanza. Anzi il senso della sperimentazione è proprio quello di verificare se l’esistenza di un reddito minimo possa mettere i cittadini nella migliore condizione di libertà dall’immediato bisogno per potere scegliere un lavoro che li possa soddisfare. Naturalmente questo richiederebbe contemporaneamente una politica economica capace di creare nuovi lavori di qualità in settori innovativi. E su questo torneremo. Ma certamente si tratta di una misura che va ben al di là della lotta alla povertà, per quanto benemerita questa sia. Non è ancora un reddito universale, poiché esso viene corrisposto a disoccupati, ma comincia a staccarsi dall’obbligo di una prestazione di lavoro in capo alla persona beneficiaria. Naturalmente l’esperimento ha suscitato in ambito internazionale diverse critiche. Al punto che a fine aprile si è fatto credere che sarebbe stato interrotto. Il governo finlandese ha dovuto smentire formalmente la notizia e precisare che esso continuerà fino alla fine prevista, cioè per tutto il 2018, con possibilità  per l’anno successivo di un allargamento della platea dei beneficiari. Ma naturalmente questo dipenderà anche dall’esito delle elezioni previste nel giugno del 2019.

Un altro caso interessante ci arriva dall’altra parte dell’oceano. Anche in Canada si sperimenta il reddito di cittadinanza. Il progetto pilota partirà in Ontario, la provincia più popolosa del paese, nella quale la produzione industriale è superiore a quella che si ottiene sommando la produzione di tutti gli altri distretti industriali. Per ora saranno solo 4mila i cittadini che riceveranno un reddito minimo, su una popolazione complessiva di 13milioni di persone. I “fortunati” sono concentrati in tre città, verranno scelti in modo casuale  tra chi è nella fascia di età tra i 18 e i 64 anni, con la condizione, però, di avere un reddito considerato basso per gli standard di quel paese. L’importo del reddito su base annua sarà pari a 16.989 dollari canadesi l’anno (pari a circa 11.419 euro). Anche in questo caso percepisce il reddito anche chi ha già un lavoro con un basso salario. In questo caso però il reddito minimo verrà decurtato della metà del salario percepito. Per esemplificare se uno guadagna con il proprio lavoro 10mila dollari canadesi all’anno, percepirà un reddito di base di 11.989, arrotondando le proprie entrate a 21.989 dollari canadesi. Anche se in forma quantitativamente minore è interessante notare che reddito di base e salario da lavoro non vengono messi in alternativa l’uno contro l’altro.

L’esatto contrario di quello che sostiene la Confindustria nostrana, la quale non ha fatto mancare le sue aspre critiche al reddito minimo pur nella sua più limitata e condizionata versione che abbiamo prima descritto. Il centro studi della Confindustria ha infatti pubblicato un breve studio sul Rei, cioè il reddito di inclusione attualmente in vigore e sulle differenze con la proposta contenuta nel contratto di governo. Ovviamente il nostro padronato non si accontenta del ridimensionamento di quest’ultima rispetto alle promesse iniziali, ma insiste nel considerarla eccessiva per i costi, per lo spostamento di risorse pubbliche dalle imprese ai cittadini, perché potrebbe distogliere dall’accettazione di lavori con salari troppo bassi. Ed è proprio quest’ultimo l’aspetto più importante e interessante della introduzione di una forma di reddito minimo, pur con molti limiti: essa – ce lo dice la Confindustria senza alcun pudore – servirebbe anche per impedire uno sfondamento verso il basso dei salari. Specialmente se venisse accompagnata dalla fissazione per via legislativa, o anche per via contrattuale, ma in modo da coprire tutti i settori lavorativi, di un salario minimo orario al di sotto del quale non si può scendere e al di sopra del quale si sviluppa la contrattazione salariale sia a livello di contratto collettivo nazionale di lavoro, sia a livello aziendale o territoriale.

Tuttavia il tema di un reddito di cittadinanza, inteso come universale e incondizionato dalla singola prestazione di lavoro, si impone non solo come misura nella lotta alla povertà, non solo per evitare i salari da fame e il fenomeno dei working poors, ma anche e soprattutto come risposta alla moderna disoccupazione, quella tecnologica. Una disoccupazione non congiunturale e neppure dovuta solo a crisi di carattere mondiale capaci di produrre una profonda depressione, come fu quella del 1929 e per la sua estensione e durata quella attuale in cui siamo immersi soprattutto in Europa. Ma una disoccupazione strutturale. Ne aveva già parlato Karl Marx con insuperata capacità previsionale sulle tendenze intrinseche al capitalismo. Ne ha parlato un non marxista per eccellenza, come John Maynard Keynes. Ora è diventato un argomento di drammatica attualità.

Mi fermo ad un esempio solo che mi pare emblematico di come si sono invertiti i flussi della globalizzazione e quanto aggressiva sia la tendenza a sostituire il lavoro morto – quello incorporato nei robot – al lavoro vivo. La cinese Tianyuan Garments ha annunciato che aprirà una fabbrica tessile in Arkansas, grazie a generosi incentivi diretti e agevolazioni fiscali da parte della Contea. Potrà produrre 23 milioni di t-shirts all’anno, made in Usa, al prezzo medio di 33 centesimi di dollaro. Secondo il presidente della società cinese, che lavora anche per Adidas, Armani e Reebok, in nessun paese del mondo il costo del lavoro sarà così basso. La fabbrica sarà infatti interamente gestita da robot, con una velocità di produzione calcolata in 26 secondi a pezzo. Per ora la Tianyuan si è impegnata ad assumere 400 persone a Little Rock, la capitale dell’Arkansas: saranno prevalentemente operatori delle macchine. Ma fino a quando questa occupazione durerà?

L’estensione della robotizzazione aggredisce tutti i settori, compreso quelli ad elevato contenuto di lavoro intellettuale. Un travaso di lavoratori dall’uno all’altro segmento produttivo, come successe nelle precedenti rivoluzioni industriali, è oggi sostanzialmente illusorio. Certamente una resistenza a processi di distruzione occupazionale può e deve essere intrapresa. Senza vagheggiare moderni luddismi. Intervenire sugli algoritmi che regolano velocità e intensità della prestazione lavorativa è oggi un punto decisivo che qualifica la contrattazione. Ma il problema è che la robotizzazione riguarda l’intero mondo del lavoro, non solo quello manifatturiero, ove ancora si può contare sulla forza operaia e buoni tassi di sindacalizzazione. Ma non sempre e non ovunque. In più i processi si muovono sempre più rapidamente.

Per questa ragione non ha senso contrapporre frontalmente la ricerca di un piena occupazione al reddito di cittadinanza. La cancellazione di posti nei vecchi settori avviene più rapidamente di quanto non se ne possano creare in settori innovativi. Per questi ultimi è necessario un massiccio intervento pubblico poiché il capitale privato fugge da impieghi in attività a redditività differita. Ed è precisamente questo il limite del capitalismo che impone il suo superamento. Ma intanto bisogna organizzare la resistenza, accumulare le forze, ingaggiare la lotta non solo per la ripartizione della ricchezza socialmente prodotta, ma anche sui modi e sui rapporti della sua produzione.

Per questo ha ragione Paola Boffo, quando ci dice che “come minimo ci vuole un reddito minimo”: un saggio approccio pragmatico a questa grande questione, che però non perde di vista gli scenari di fondo. Un reddito che deve essere sempre meno condizionato dalla prestazione lavorativa individuale. Ma che non può prescindere dal lavoro in generale, ovvero dalla ricchezza socialmente prodotta (ma privatamente appropriata) in tutte le sue varie forme, anche quelle che oggi non vengono riconosciute come lavoro – e che invece lo dovrebbero – e che non solo fanno parte ma sono indispensabili al funzionamento della catena del valore. La robotizzazione ci impone questa sfida. Essa altro non è che lavoro vivo, saper fare attraverso i secoli  e ingegno umano  che sono stati immagazzinati nelle macchine. Il reddito di base è il dividendo sociale che le passate generazioni offrono alle nuove.

Nello stesso tempo la macchina non potrà mai integralmente sostituire l’uomo e il lavoro umano, ma solo sollevarlo dalla fatica e dal tempo del lavoro  necessario alla sua sussistenza e riproduzione. Oppure può diventare lo strumento dell’oppressione, dell’accumulazione capitalistici in uno scenario distopico di disperata disoccupazione crescente. Più alti salari, controllo della prestazione lavorativa e sull’oggetto della produzione, riduzione dell’orario di lavoro, reddito di cittadinanza sono i fronti che contemporaneamente vanno agiti, anche se con tutti i gradualismi che i rapporti di forza inevitabilmente impongono di considerare.

 

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