di Michele Prospero -Il Manifesto - 01.04.2018

Che il voto non abbia premiato la sinistra è così evidente che non vale insistervi oltre. Invece di accanirsi in una metafisica della sconfitta o di trincerarsi in un silenzio che dura ormai da un mese, i dirigenti dovrebbero chiarire cosa fare del modesto bottino elettorale comunque ricevuto. Non ci vuole una disperata opera di contrizione per spiegare perché dal 6% raggiunto alcuni mesi prima alle regionali in Sicilia si è verificata alle politiche una perdita di almeno due punti che ha indebolito di molto il progetto. Hanno pesato gli errori di comunicazione (la dichiarazione di disponibilità di Grasso, a tre giorni dal voto, a un governo di scopo con Renzi e Berlusconi), l’arroganza nella composizione delle liste (in Umbria, nella notte prima del deposito delle candidature, da Roma è venuto l’ordine di cancellare la lista che si apriva con il nome di uno tra i più autorevoli costituzionalisti, solo per soddisfare equilibri astrusi), l’insensibilità politico-culturale (di un appello promosso da Asor Rosa e firmato da 150 docenti universitari non si è ritenuto di fare nulla), il rifiuto in origine di dotarsi di un nome e di un simbolo che risultassero più coerenti con l’ambizione di rappresentare la sinistra rimasta nel bosco. In mezzo a processi obiettivi, che trascendevano la volontà e la possibilità di incidere nelle onde del sistema in crisi, questi errori, che invece sono attribuibili a carenze del tutto soggettive, hanno contribuito a togliere quei decimali di consenso che avrebbero dato una percentuale maggiore e quindi una dimensione diversa alla sconfitta. Comunque, anche nella batosta, il compito dei dirigenti è quello di non smobilitare. C’è più di un milione di persone (bisognerebbe aggiungere anche quelli che hanno scelto Potere al popolo) che non rinuncia al voto identitario, e non cede al richiamo del voto utile. Dare un senso a queste esperienze è il solo atto politico che andrebbe perseguito. Con quali idee?
La crisi del liberismo è il punto di partenza comune alle democrazie d’occidente. La destra passa con disinvoltura dal mito liberista reaganiano e tatcheriano alle invocazioni di protezionismo di Trump, che conquista le periferie sollecitando primordiali spinte comunitaristiche. ll dato di sistema, anche in Italia, è segnato dalla crisi degli assi politico-sociali-culturali della cosiddetta seconda repubblica. Essi ruotavano attorno alla polarità tra un liberismo a contaminazione populista e a guida berlusconiana e una modernizzazione dolce guidata dalla coalizione all’insegna di un neo-illuminismo europeo a conduzione prodiana. La crisi del liberismo e del progetto europeo della concorrenza dei mercati crea un vuoto di rappresentanza che premia le offerte di chiusure, protezioni e illusioni comunitarie o le sempre arzille simbologie anticasta.
Tra l’individualismo liberista demolito dalla crisi sociale e i rifugi in comunità ingannevoli (prima gli italiani, il rosario e la ruspa) esiste un vuoto, quello che nel Novecento ha occupato il socialismo. Chi pensa che non ci siano alternative al populismo, e che quindi anche la sinistra debba camuffarsi con abiti adeguati allo spirito del tempo (ma il Renzi trafitto a ripetizione non era proprio questo travestimento populistico?) lancia alternative illusorie. Per recuperare gli elettori che hanno abbandonato la sinistra per approdare al M5S non occorre scimmiottare la versione più originale e anche genuina della rivolta del “basso”. Questo inseguimento della invenzione grillina sarebbe una operazione inutile e velleitaria (come è parsa la disperata mossa di Letta e Renzi di riassorbire la protesta del M5S contro la casta cancellando il finanziamento pubblico ai partiti).
Serve un progetto più complesso che non l’invito alla sinistra ad appropriarsi delle maschere altrui per tentare di sfondare con l’ossimoro di un populismo rosso. Occorre una cultura politica nuova che tragga ispirazione da Marx e che quindi politicizzi oggi la contraddizione tra il tempo che la tecnica libera e le esclusioni che il capitale impone. Non c’è nulla di più insopportabile dei lamenti sugli operai che sono stati abbandonati dalla politica. E da quando una classe ha bisogno della supplenza di altri? Spiegava proprio Marx ai soggetti dispersi che finché «l’identità dei loro interessi non crea tra di loro una comunità, un’unione politica su scala nazionale e un’organizzazione politica, essi non costituiscono una classe». E se i subalterni, anche quelli della postmodernità, non dispongono di una organizzazione politica «non possono rappresentare se stessi; debbono farsi rappresentare». Davvero i delegati sindacali, i lavoratori precari possono rinunciare a costruire una loro coalizione sociale, con una organizzazione politica autonoma, credendo di essere rappresentati da una microimpresa che maneggia in solitudine la magia occulta della rete? Se dopo un mese di silenzio non si parla di questo, offrendo un senso al milione di votanti che sono pronti ad agire per qualcosa di nuovo, è meglio lasciar perdere tutto.
 

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