di Roberto Bertoni.

Con il rispetto che sempre si deve ad un uomo che versa nelle condizioni in cui versa Marchionne, è doveroso compiere una riflessione laica sulla sua persona e sul suo operato.
Sergio Marchionne, ruvido manager in grisaglia, refrattario a indossare l'abito che di solito si conviene ad un manager, ha assunto la guida della FIAT nel 2004, dopo la morte di Gianni e Umberto Agnelli, in un momento storico nel quale si temeva che la più importante industria italiana potesse davvero portare i libri in tribunale.
Ha salvato la FIAT, rilanciato la Chrysler grazie al decisivo supporto di Obama, fuso le due aziende e dato vita ad un colosso industriale fra i primi al mondo, con un fatturato stratosferico e finalmente in attivo dopo aver rischiato il disastro. Sul piano politico e finanziario si è mosso come meglio non si sarebbe potuto, e il fatto che gli azionisti di FCA lo ricordino con stima e affetto non solo non ci sorprende ma ci sembra giusto e finanche doveroso.
Ciò premesso, come dirigente ha avuto anche numerosi punti oscuri e aspetti più che discutibili, accelerando il declino di una Confindustria che ormai non rappresenta più il punto di riferimento di un tempo e rompendo le relazioni sindacali, in particolare con la FIOM e con la CGIL, fino a modificarle per sempre, smembrando l'unità delle rappresentanze e indebolendo in maniera clamorosa i lavoratori. E questo è stato senz'altro negativo, specie se si considera che proprio Marchionne ha avuto l'intuizione, che era stata prima di lui di Henry Ford, secondo cui senza il ceto medio è a rischio la tenuta stessa della democrazia e, sul piano squisitamente commerciale, dell'industria dell'automobile, la quale non a caso è stata tra le prime a risentire della crisi scoppiata nel 2008.
Diciamo che Marchionne, come tutti, è stato travolto da un evento epocale e da quel momento non si è più ripreso; o, per meglio dire, ha cambiato pelle, accantonando i buoni rapporti sindacali maturati fino ad allora per trasformarsi nel Cerbero dei referendum di Mirafiori e Pomigliano, fino a trasferire di fatto l'industria fuori dall'Italia, lasciando il deserto dove prima c'erano produzioni e relazioni industriali di valore. Un vallettismo globale, il suo, senza tuttavia possedere né l'antica sobrietà di Valletta né la passione politica e civile di Romiti.
Il punto è che non gli si possono attribuire anche le colpe che non ha. Marchionne è un capitalista puro, per quello è stato assunto e pagato fior di milioni dalla FIAT, quello sa fare e quello ha fatto alla grande. Allo stesso modo, i sindacati, o quanto meno la FIOM, hanno fatto la loro parte. Chi è mancata clamorosamente è la politica.
Marchionne ha potuto salvare la Chrysler facendosi apprezzare dagli operai americani perché ha avuto dietro un presidente che ha svolto al meglio il proprio ruolo di regolamentazione e controllo, investendo denaro pubblico e ponendosi l'obiettivo di salvare un'azienda cruciale per i destini del Paese.
In Italia, il nostro se l'è dovuta vedere o con degli integralisti o con dei tifosi con la trombetta in bocca, non ugualmente colpevoli ma ugualmente in torto. La politica ha, quindi, abdicato al proprio ruolo, fra chi invocava misure ridicole e irrealizzabili e chi, invece, esaltava gli spiriti animali del capitalismo, elogiando ogni forma di disumanità e di repressione del dissenso.
L'unica posizione sensata, ossia mandare al diavolo le vestali dell'austerità e dei dogmi che stanno devastando l'Europa, investire pubblicamente e salvare la FIAT come Obama ha tutelato la Chrysler, favorendo gli investimenti ma non a scapito di tutele e diritti dei lavoratori, quest'unica posizione di buonsenso è rimasta appannaggio di pochi idealisti, inascoltati e irrisi dai più.
La sconfitta bruciante, pertanto, è stata dovuta all'insipienza di chi si è rifiutato di mediare, all'incapacità di chi non ha saputo né voluto innovare e comprendere la mutevole realtà di un mondo globale, alla pochezza di chi non ha saputo andare al di là di qualche slogan e, infine, alla crisi epocale di tutti i corpi intermedi e le associazioni di categoria, abbandonate da Marchionne a se stesse e ripetutamente umiliate dai suoi metodi, fino a dover fare oggi i conti con un abisso che non riguarda solo la produzione ma la vita stessa di intere aree del Paese.  
Ora la parola passa a questa nuova gestione che di italiano non ha più nulla (se ne è lamentato lo stesso Romiti, commentando l'addio di Altavilla), con una dirigenza di sicure capacità manageriali e di grande prestigio internazionale ma con la quale sarà semprepiù difficile mediare, a dimostrazione di quanto sarebbe utile un'Europa unita, coesa e in grado di parlare con una voce sola su tutte le grandi questioni economiche e industriali del nostro tempo.
Di fronfe ai dazi di Trump e alla certezza che il mercato dell'auto non tornerà piu com'era prima della crisi, la dirigenza appena insediatasi ha davanti a sé sfide terribili. Stesso discorso per i sindacati, con l'aggravante che essi dovranno condurre mediazioni e tentare di trovare accordi su un piano inedito, al cospetto di una controparte che non offre appigli e con la quale bisognerà, per forza di cose, ragionare in termini più ampi e secondo logiche che vanno ben al di là dei meri interessi nazionali.
Cosa resta, dunque, di Marchionne? Il suo essere uno dei simboli più noti di un capitalismo apolide, spietato, senza alcuna attenzione per le esigenze dei ceti sociali più deboli e guidato unicamente dalla logica del profitto e dell'arricchimento dei soliti noti a scapito della comunità. E poi ci rimane l'immagine di un uomo solo, drammaticamente solo, stretto in quei maglioni sgualciti che lo rendevano volutamente inelegante e avvolto dal fumo di mille sigarette, lo stesso che ha utilizzato per nascondere e confortare le sue comprensibili debolezze e che, infine, gli è stato fatale.

P.S. Quindici anni fa se ne andava, a soli settantaquattro anni, l'avvocato Vittorio Caisotti di Chiudano, uno dei simboli della Juventus e della famiglia Agnelli. Un pensiero affettuoso per una splendida persona.

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