di Roberto Bertoni.

È bastato seguire alcuni passaggi dell'annuale Forum Ambrosetti a Cernobbio per rendersi conto di un fenomeno che sta caratterizzando, e diremmo quasi terremotando, da diverso tempo la politica italiana. Siamo, infatti, al cospetto di una sorta di furia iconoclasta ad opera dei leader dei principali partiti di casa nostra, come se non solo la storia nazionale ma anche quella delle compagini che hanno l'onore di guidare andasse loro particolarmente stretta.
Prendiamo, ad esempio, Salvini. Dopo che Bossi si è inventato la Padania, andando avanti per trent'anni con slogan che avrebbero dovuto fare accapponare la pelle ai discendenti di coloro che avevano sacrificato la vita per liberare definitivamente l'Italia dal giogo austriaco, il Matteo lombardo è riuscito nell'impresa di spacciare un partito che ha ancora tra i suoi obiettivi principali la secessione dall'Italia e l'indipendenza della Padania per un soggetto politico di matrice nazionalista e sostanzialmente lepenista. E così, dopo il trentennio indipendentista, a colpi di ampolle d'acqua attinta dal dio Po, riti celtici, corna e richiami ad Alberto da Giussano, ecco che lo stato maggiore leghista ha preso a raccontarci che loro, in realtà, non ce l'hanno mai avuta con il resto della Penisola e che, in fondo, quando il fondatore invitava una signora ad utilizzare il tricolore come carta igienica non stava vilipendendo la bandiera nazionale ma compiendo un'innocua battuta.
Ora, quel birichino del suo successore non solo sventola la bandiera italiana ma propone addirittura il ritorno alla lira (ci siamo risparmiati il durone: non è poco) e una linea trumpista che nulla ha a che vedere con la matrice storica di un soggetto politico nel quale, peraltro, il nostro eroe milita dal lontano 1990.
E che dire di Gigi Di Maio, enfant prodige del Movimento 5 Stelle, il quale, dopo aver snobbato lo scorso anno la kermesse del mondo che conta, riunita sulle amene rive del Lago di Como, quest'anno non solo vi si è presentato con un giorno d'anticipo nel tentativo di rovinare la piazza a Gentiloni (ovviamente non riuscendoci, visto che l'attuale presidente del Consiglio era se stesso mentre il candidato in pectore dei pentastellati indossava evidentemente una maschera) ma ha anche asserito con tono solenne che i 5 Stelle non sono un soggetto politico populista.
Non solo: il nostro, in questi giorni, è andato pure al Festival del Cinema di Venezia e a Monza a tifare per la Ferrari, evidenziando un certo feeling sia con i divi del cinema che con l'alta finanza e quel panorama imprenditoriale in stile Marchionne che un tempo i grillini vedevano come il fumo negli occhi.
Non a caso, alcuni esponenti assai vicini a quell'area, da Imposimato, ex candidato alla presidenza della Repubblica, al professor Aldo Giannuli, hanno stigmatizzato con la massima fermezza questa svolta governista e abbastanza rivolta verso destra, al punto che qualche campanello d'allarme da quelle parti è scattato e che lo stesso Di Maio è stato chiamato a difendersi, rivendicando le virtù del dialogo e del confronto con tutti.
Già, è proprio così ed è assolutamente fuori luogo il commento cinico ed insulso di quanti irridono queste affermazioni di puro buonsenso; diciamo che andrebbe, tuttavia, fatto presente al vicepresidente della Camera che da quando ha fiutato la possibilità concreta di arrivare a Palazzo Chigi, gli ardori giovanili gli sono scomparsi di colpo tutti insieme. E aggiungiamo che forse, a quelle latitudini, dovrebbero iniziare a chiedere a scusa al povero Pizzarotti, a un bel po' di coloro che hanno espulso o sono fuoriusciti per disperazione e a tutti coloro che in questi anni hanno tacciato di essere massoni, venduti, farabutti e via elencando solo perché compivano le medesime azioni, perfettamente lecite e politicamente sensate, che adesso compiono anche loro.
Infine Renzi: l'uomo che ha ereditato il più grande partito della sinistra italiana, discendente dal PCI e dal cattolicesimo democratico di Moro e Andreatta, e lo ha trasformato in un partito di centro che guarda a destra, senza disdegnare rapporti di collaborazione con Verdini e, da quando c'è Minniti agli Interni, anche qualche bella escursione nell'ambito della linea legge, ordine e disciplina che non è proprio, storicamente, la visione del mondo tipica della sinistra.
In tutta questa foga di emancipazione dalle radici e dai legami del passato, che peraltro a Renzi non ha portato proprio benissimo, c'è un solo personaggio che ha avuto il coraggio e l'intelligenza di tornare sulla breccia con la sua faccia, le sue idee cardine ed un minimo di coerenza e riconoscibilità: è Silvio Berlusconi, ossia la figura che abbiamo giustamente combattuto per vent'anni, cui imputiamo la maggior parte dei guasti del nostro Paese, che ovviamente non voteremo mai e continueremo con fermezza ad avversare ma che i suoi successori, nel goffo tentativo di emularlo (o come novità o come leader del centrodestra o come asso pigliatutto), sono riusciti nell'impresa di farci quasi rimpiangere.

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