Il lavoro che fa morire

Lucia Baroncini
Ieri è morta Luana, una giovane operaia di un'azienda tessile di Prato. Aveva 22 anni. Il suo bambino ne ha cinque. Luana è rimasta intrappolata in un orditoio ed è morta in pochi attimi davanti alle sue colleghe. E' rimasta agganciata al rullo ed è stata inghiottita dal macchinario che permette di preparare la struttura verticale della tela che costituisce la trama del tessuto. Lavorava nella fabbrica da un anno, era diventata madre a 17, aveva una piccola famiglia da mantenere. Viveva a Pistoia con i genitori e il fratello. Luana D'Orazio. Ricordiamoci ogni tanto questi nomi. Sono le vittime delle cosiddette "morti bianche". Bianche perché non c'è una mano direttamente responsabile, sono morti senza un colpevole. Bianche non come il sangue che si versa e lo strazio che produce. L'unica certezza è l'innocenza di chi muore mentre lavora. Luana era giovane come un ragazzo di 23 anni che ha perso la vita in un'altra azienda tessile due mesi fa. Il lavoro delle fabbriche, dei macchinari, delle catene di montaggio, degli ingranaggi, delle sirene esiste ancora, ma è come se non esistesse più da un bel po' di tempo. Chi ne parla, chi se ne preoccupa? Il lavoro si chiama realtà. Di realtà si può morire semplicemente per cercare di avere una vita. Sono centinaia le persone che ogni anno la sera non tornano più a casa. Si prova dolore, rabbia, senso di una insopportabile ingiustizia. Ma passa presto. I caduti sul lavoro sono notizie brevi, veloci, durano un giorno. Da decenni chi chiede sicurezza nei luoghi di lavoro è come se abbaiasse alla luna. Siamo nel Paese dove un rapper milionario per giorni occupa le prime pagine dei giornali e divide la politica, eccita l'informazione, produce schieramenti, fa pensare addirittura a future leadership, stimola nuovi e milionari contratti pubblicitari. E' la logica del mercato, il dominio dell'immagine, il vuoto delle idee e la seduzione del nulla. Risparmiamoci "Io sto con ...". Di like e followers è ormai satura l'aria.

 

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