di Maria Pellegrini

Le Idi di marzo del 44 a.C. sono divenute storicamente celebri perché ricordano l’uccisione di Gaio Giulio Cesare. La sua tragica morte ha ispirato numerose opere d’arte, versioni cinematografiche, romanzi, tragedie, saggi dei più importanti studiosi del mondo antico.

Non vogliamo qui scrivere i motivi per cui avvenne la congiura contro Cesare, ma proporre - per la loro alta drammaticità - alcuni passi della nota tragedia “Giulio Cesare” di Shakespeare, i discorsi di Bruto e Antonio di fronte alla folla convenuta nel Foro dopo l’uccisione di Cesare.

La tragedia ha inizio con le scene dei congiurati che pianificano a tradimento l’uccisione di Cesare. Nonostante gli indovini gli abbiano raccomandato di “guardarsi dalle Idi di Marzo” e la moglie Calpurnia lo abbia informato di altri tragici presagi, Cesare si reca in Senato. I congiurati lo circondano e lo pugnalano. Arriva Marco Antonio e, fingendo di considerare gli assassini di Cesare suoi amici, chiede e ottiene di poter parlare alla folla che si è radunata. Bruto gli accorda il permesso a condizione che non parli contro i congiurati. Davanti al popolo Bruto e Marco Antonio pronunciano i loro discorsi.

Bruto parla per primo e spiega che l’uccisione di Cesare non è stata motivata da odio o interessi personali, ma solo dall’amore per la libertà e dalla volontà di impedire l’instaurarsi di una tirannia.

BRUTO: “Siate pazienti sino alla fine. Romani, compatriotti, e amici! Uditemi per la mia causa; e fate silenzio per poter udire; credetemi per il mio onore; e abbiate rispetto per il mio onore affinché possiate credere; giudicatemi nella vostra saggezza, ed acuite il vostro ingegno affinché meglio possiate giudicare. Se vi è alcuno qui in questa assemblea, alcun caro amico di Cesare, a lui io dico che l’amore di Bruto per Cesare non era minore del suo. Se poi quell’amico domandi perché Bruto si sollevò contro Cesare, questa è la mia risposta: non perché io amassi Cesare meno, ma perché amavo Roma di più. Preferireste che Cesare fosse vivo, e morire tutti da schiavi, o che Cesare sia morto per vivere tutti da uomini liberi? In quanto Cesare mi amò, io piango per lui; in quanto la fortuna gli arrise, io ne godo; in quanto egli fu coraggioso, io l’onoro; ma in quanto egli fu ambizioso, io l’ho ucciso: vi sono lacrime per il suo amore, gioia per la sua fortuna, onore per il suo coraggio, e morte per la sua ambizione. Chi v’è qui così abietto che sarebbe pronto ad essere schiavo? Se vi è, che parli; perché lui io ho offeso. Chi vi è qui così barbaro che non vorrebbe essere romano? Se vi è, che parli; perché lui ho offeso. Chi vi è qui così vile che non ami la sua patria? Se vi è, che parli; perché lui ho offeso. Aspetto una risposta.

La folla sembra essere dalla parte di Bruto e tutti rispondono:

“Nessuno Bruto! Nessuno!”

Antonio comincia a parlare. La sua è un’abile orazione.

ANTONIO: “Amici, Romani, compatriotti, prestatemi orecchio; io vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo. Il male che gli uomini fanno sopravvive loro; il bene è spesso sepolto con le loro ossa; e così sia di Cesare. Il nobile Bruto v’ha detto che Cesare era ambizioso: se così era, fu un ben grave difetto: e gravemente Cesare ne ha pagato il fio. Qui, col permesso di Bruto e degli altri – ché Bruto è uomo d’onore; così sono tutti, tutti uomini d’onore – io vengo a parlare al funerale di Cesare. Egli fu mio amico, fedele e giusto verso di me: ma Bruto dice che fu ambizioso; e Bruto è uomo d’onore. Molti prigionieri egli ha riportato a Roma, il prezzo del cui riscatto ha riempito il pubblico tesoro: sembrò questo atto ambizioso in Cesare? Quando i poveri hanno pianto, Cesare ha lacrimato: l’ambizione dovrebbe essere fatta di più rude stoffa; eppure Bruto dice ch’egli fu ambizioso; e Bruto è uomo d’onore. Tutti vedeste come al Lupercale tre volte gli presentai una corona di re ch’egli tre volte rifiutò: fu questo atto di ambizione? Eppure Bruto dice ch’egli fu ambizioso; e, invero, Bruto è uomo d’onore. Non parlo, no, per smentire ciò che Bruto disse, ma qui io sono per dire ciò che io so. Tutti lo amaste una volta, né senza ragione: qual ragione vi trattiene dunque dal piangerlo? O senno, tu sei fuggito tra gli animali bruti e gli uomini hanno perduto la ragione. Scusatemi; il mio cuore giace là nella bara con Cesare e debbo tacere sinché non ritorni a me”.

I cittadini sono sbigottiti e turbati dalle parole di Antonio e cominciano a chiedersi quali siano le colpe di Cesare. Antonio continua il suo abile discorso.

ANTONIO: “Pur ieri la parola di Cesare avrebbe potuto opporsi al mondo intero: ora egli giace là, e non v’è alcuno, per quanto basso, che gli renda onore. O signori, se io fossi disposto ad eccitarvi il cuore e la mente alla ribellione ed al furore, farei un torto a Bruto e un torto a Cassio, i quali, lo sapete tutti, sono uomini d’onore: e non voglio far loro torto: preferisco piuttosto far torto al defunto, far torto a me stesso e a voi, che far torto a sì onorata gente. Ma qui è una pergamena col sigillo di Cesare – l’ho trovata nel suo studio – è il suo testamento: che i popolani odano soltanto questo testamento, che, perdonatemi, io non intendo di leggere, e andrebbero a baciar le ferite del morto Cesare, ed immergerebbero i loro lini nel sacro sangue di lui; anzi, chiederebbero un capello per ricordo, e morendo, ne farebbero menzione nel loro testamento, lasciandolo, ricco legato, alla prole”.

La folla richiede a gran voce la lettura del testamento e Antonio si finge titubante, in realtà prosegue il suo piano per suscitare il disprezzo e la rabbia contro i congiurati.

ANTONIO: “Pazienza, gentili amici, non debbo leggerlo; non è bene che voi sappiate quanto Cesare vi amò. Non siete di legno, non siete di pietra, ma uomini, ed essendo uomini, e udendo il testamento di Cesare, esso v’infiammerebbe, vi farebbe impazzire: è bene non sappiate che siete i suoi eredi; ché, se lo sapeste, oh, che ne seguirebbe!”

Ormai la folla è eccitata, continua a chiedere lettura del testamento e chiama “vigliacchi” e “assassini” gli uccisori di Cesare. Antonio ha raggiunto il suo scopo ma deve infiammare ancora di più la folla e prega tutti di mettersi in cerchio attorno al corpo straziato e insanguinato di Cesare:

ANTONIO: “Se avete lacrime, preparatevi a spargerle adesso. Tutti conoscete questo mantello: io ricordo la prima volta che Cesare lo indossò; era una serata estiva, nella sua tenda, il giorno in cui sconfisse i Nervii: guardate, qui il pugnale di Cassio l’ha trapassato: mirate lo strappo che Casca nel suo odio vi ha fatto: attraverso questo il ben amato Bruto l’ha trafitto; e quando tirò fuori il maledetto acciaio, guardate come il sangue di Cesare lo seguì, quasi si precipitasse fuori di casa per assicurarsi se fosse o no Bruto che così rudemente bussava; perché Bruto, come sapete, era l’angelo di Cesare: giudicate, o dèi, quanto caramente Cesare lo amava! Questo fu il più crudele colpo di tutti, perché quando il nobile Cesare lo vide che feriva, l’ingratitudine, più forte delle braccia dei traditori, completamente lo sopraffece: allora si spezzò il suo gran cuore; e, nascondendo il volto nel mantello, proprio alla base della statua di Pompeo, che tutto il tempo s’irrorava di sangue, il gran Cesare cadde. Oh, qual caduta fu quella, miei compatriotti! Allora io e voi, e tutti noi cademmo, mentre il sanguinoso tradimento trionfava sopra di noi. Oh, ora voi piangete; e, m’accorgo, voi sentite il morso della pietà: queste son generose gocce. Anime gentili, come? Piangete quando non vedete ferita che la veste di Cesare? Guardate qui, eccolo lui stesso, straziato, come vedete, dai traditori”.

Antonio ha ottenuto quello che voleva, la ribellione del popolo pronto a scagliarsi contro i traditori, ma Antonio fingendo di voler placare gli animi, dice parole che ancora di più suscitano odio.

ANTONIO: “Buoni amici, dolci amici, che io non vi sproni a così subitanea ondata di ribellione. Coloro che han commesso questa azione sono uomini d’onore; quali private cause di rancore essi abbiano, ahimè, io ignoro, che li hanno indotti a commetterla; essi sono saggi ed uomini d’onore, e, senza dubbio, con ragioni vi risponderanno. Non vengo, amici, a rapirvi il cuore. Non sono un oratore com’è Bruto; bensì, quale tutti mi conoscete, un uomo semplice e franco, che ama il suo amico; e ciò ben sanno coloro che mi han dato il permesso di parlare in pubblico di lui: perché io non ho né l’ingegno, ne la facondia, né l’abilità, né il gesto, né l’accento, né la potenza di parola per scaldare il sangue degli uomini: io non parlo che alla buona; vi dico ciò che voi stessi sapete; vi mostro le ferite del dolce Cesare, povere, povere bocche mute, e chiedo loro di parlare per me: ma se io fossi Bruto, e Bruto Antonio, allora vi sarebbe un Antonio che sommoverebbe gli animi vostri e porrebbe una lingua in ogni ferita di Cesare, così da spingere le pietre di Roma a insorgere e ribellarsi”.

Antonio impone il silenzio e legge il testamento che dispone lasciti in denaro ad ogni cittadino romano e a tutto il popolo orti e giardini, luoghi ameni per passeggiare e ricrearsi. Ciò suscita l’inizio della rivolta. I congiurati sono costretti a lasciare la città per evitare il linciaggio. Giunge a Roma Gaio Ottaviano, pronipote e figlio adottivo di Cesare. Si prepara la resa dei conti fra lui e Antonio, da una parte, e i congiurati dall'altra. In Grecia Bruto e Cassio raccolgono le loro truppe per lo scontro finale.

Un’altra scena significativa della tragedia è quella in cui appare agli occhi di Bruto lo spettro di Giulio Cesare che gli annuncia la sua prossima sconfitta con queste minacciose parole :“Ci rivedremo a Filippi”.

La scena si sposta a Filippi. Cassio e Bruto si danno la morte piuttosto che cadere in mano al nemico. Poco dopo, è lo stesso Marco Antonio a rendere a Bruto l’onore delle armi e a pronunciarne un elogio.

ANTONIO: “Questo fu il più nobile romano di loro tutti. Tutti i cospiratori, salvo lui soltanto, hanno fatto quel che hanno fatto per invidia del grande Cesare. Soltanto lui, in un onesto progetto generale e per il bene di tutti, diede unità alla congiura. La sua vita fu nobile, e gli elementi erano così ben composti in lui che la Natura potrebbe alzarsi e proclamare al mondo: ‘Questo fu un uomo!’”

A differenza di Dante Alighieri che colloca Bruto nel peggior posto dell’inferno, Shakespeare lo considera come un cospiratore di animo nobile perché vuole evitare che Roma diventi una monarchia assoluta.

Il “Giulio Cesare” è senza dubbio una delle sue tragedie più famose: scritto tra il 1599 e il 1600 narra la più nota congiura della storia, nella quale Shakespeare mette in risalto la psicologia dei personaggi in maniera magistrale e utilizza la storia di Roma come una specie di metafora delle trasformazioni di uno stato, i suoi possibili cambiamenti e degenerazioni. Al centro del “Giulio Cesare” shakespeariano c’è il tema del potere, della sua nascita, delle suo affermarsi e delle conseguenze per le vite degli uomini. Cesare, Bruto e Antonio, sono diventati, dopo Shakespeare, veri archetipi della politica e della Storia.

Nota: La traduzione dei discorsi riportati è tratta da Giulio Cesare, a cura di M. Praz, Sansoni, Firenze 1964.

Immagine: “La Morte di Giulio Cesare” è un dipinto a olio su tela realizzato dal pittore Vincenzo Camuccini nel 1798 e conservato nel Museo nazionale di Capodimonte a Napoli.

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