di Maria Pellegrini.

A Parigi, alle gallerie nazionali del Grand Palais, fino al 24 luglio protagonisti di un’interessante mostra sono i Giardini, (Jardins è il titolo francese dell’esposizione). La sfida è quella di presentare i giardini come forma d’arte sebbene sia effimera rispetto alle arti cosiddette nobili perché i giardini non appartengono al mondo degli oggetti finiti, sono opere d’arte in continuo divenire, si rinnovano e ricreano secondo i tempi. Fortunatamente quelli antichi rivivono attraverso la loro rappresentazione pittorica che li ha tramandati in un’immagine immutabile ed eterna. Un affresco pompeiano della “Casa del Bracciale d’oro”, esposto in questa mostra, ci dà lo spunto per parlare della storia del giardino romano e del suo mutare, con il passare del tempo, in ornamento decorativo e luogo dove trovare non solo il fresco, la luce o l’ombra, i colori e i profumi, ma anche uno spazio ideale che parla alla fantasia e allo spirito.

Come i prodotti della scultura, pittura, letteratura così anche i giardini esprimono qualcosa dello spirito dell’epoca nel quale sono stati realizzati. Ripercorrerne la storia è un viaggio attraverso le consuetudini, le condizioni economiche di un popolo, ma a differenza delle opere artistiche o letterarie che possono sfidare i secoli e lasciare una concreta memoria di sé, i giardini antichi ci sono noti soltanto attraverso gli affreschi o le descrizioni che ci hanno lasciato gli scrittori.

Con la parola latina “hortus” originariamente si intendeva un piccolo appezzamento di terreno chiuso da un muro di cinta, annesso alla casa e posto sul retro dell’edificio, mentre i pochi ambienti abitativi erano disposti attorno all’atrio. L’hortus era destinato alla produzione di ortaggi, frutta e qualche fiore ed era protetto dalle stesse divinità della casa, i Lari. Oltre che quelli domestici, una cintura di horti circondava Roma e i centri urbani, rifornendo quotidianamente i mercati locali.

Questa rustica semplicità delle origini si alterò quando la civiltà della Grecia conquistata “conquistò” a sua volta Roma. I romani, riconosciuta la superiorità culturale del popolo ellenico, ne impararono la lingua e affidarono l’educazione dei giovani patrizi a istruttori greci. Il processo di penetrazione fu favorito dalla presenza di una moltitudine di schiavi, spesso acculturati, che determinarono una diffusione della loro cultura fra le classi medie e inferiori. Le proteste di Catone contro questo processo di ellenizzazione dell’animo e della cultura romani non ottennero ascolto. Fino a quel momento nel rapporto con la natura era prevalso in Roma il carattere agreste, ma l’incontro con l’arte dei giardini greci e orientali allontanò i princìpi di una morale conservatrice che vedeva nel lavoro dei campi la formazione civile del cittadino.

Con la conquista dei paesi dell’area greca, nel corso del II sec. a. C. Roma apprese conoscenze scientifiche e tecniche della coltivazione della terra, trattati con la classificazione degli alberi, lo studio della botanica, delle erbe medicinali.

Con il miglioramento delle condizioni economiche, gli edifici e le parti destinate all’abitazione, divennero sempre più ampi, e l’hortus vide la presenza di piante ornamentali e fiori. Questo spazio fu chiamato con il nome plurale “horti” per significare la presenza di una porzione di terreno destinata alla produzione di fave, piselli, lupini, cavoli, cipolle, insalate e altri vegetali commestibili e una parte sempre più estesa di spazi con piante sempreverdi come cipressi e lecci, siepi di bosso e cespugli di mirto o rosmarino. Non mancavano alberi da frutto come fichi, ciliegi, melograni, viti, e notevole era la presenza di fiori, come provano i resti di polline e semi carbonizzati rinvenuti negli scavi di Pompei. Gli horti erano dotati di porticati e padiglioni per incontrare amici, erano impreziositi da tempietti, fontane e copie di statue greche. Il rapporto stretto che legava interno ed esterno nella casa romana è espresso in primo luogo dal peristilio (il cortile porticato) usato per ripararsi dal sole e dalla pioggia, vero e proprio cuore della casa, su cui si affacciano tutte le stanze.

L’austerità dell’hortus romano è sconvolto: all’interno delle città e delle case si creano giardini sontuosi, coltivati per il piacere dei sensi anziché per l’utilità dei frutti, e si avvia un processo di urbanizzazione delle campagne con la diffusione delle ville suburbane.

Se consideriamo la storia di Roma, è alla fine dell’età repubblicana e i primi decenni dell’epoca imperiale che si riscontra la presenza del giardino inteso come ornamento.

Un primo esempio di tali horti lo fornì Lucio Licinio Lucullo, uomo politico e generale romano, vittorioso su Mitridate re del Ponto (66 a.C.) che oltre ad importare tesori portati via al nemico, realizzò - grazie all’immenso bottino ottenuto con la vittoria - il primo grande giardino privato con aiuole, boschetti, padiglioni, portici, ninfei. I magnifici horti luculliani si estendevano sulle pendici del Pincio, nella stessa area oggi occupata da Villa Borghese, con una serie di terrazze, collegate da scalinate monumentali. Prima di lui i romani, dotati di senso pratico, avevano preferito piante utili all’economia domestica: noci, noccioli, mandorli; ortaggi ed erbe medicinali e alloro, dalle cui foglie ricavavano le corone da porre sul capo dei generali vittoriosi e usate in altre cerimonie. L’esempio di tanto lusso fu seguito dai personaggi più in vista della Repubblica.

Famosi per la loro grande estensione erano gli horti sallustiani di proprietà di Gaio Sallustio Crispo, uomo politico e storico romano del I secolo a.C., che aveva accumulato senza scrupoli enormi ricchezze durante la sua propretura nella provincia “Africa Nova”. I giardini si estendevano in una vasta area nella zona nordorientale di Roma, compresa tra i colli Pincio e Quirinale, dove egli, dopo la morte di Cesare, si ritirò a vita privata.

Grande fama ebbero i giardini di Clodia, la chiacchierata sorella del tribuno Clodio, amata e cantata da Catullo con il nome di Lebia. Situati sulla riva destra del Tevere, divennero punto di ritrovo della società brillante dell’epoca, vi si organizzavano feste sull’acqua e ricevimenti di cui Cicerone con malcelata invidia scrisse per denigrarla durante un processo.

Il giardino romano diventò parte integrante dell’abitazione e della vita quotidiana: era il luogo dell’otium e degli incontri conviviali, la cornice prestigiosa che dimostrava la ricca condizione del proprietario; nel corso del I secolo d. C. si arricchì di elementi decorativi: fontane con giochi d’acqua iniziarono a comparire insieme a ninfei, pergolati e piscine. Le aiuole furono popolate di statue ed erme. La recinzione fu spesso costituita da platani, lecci e cipressi.

Un esempio erano gli Horti di Mecenate, di proprietà del ricco consigliere dell’imperatore Augusto, che realizzò la sua villa e annessi giardini sull’Esquilino bonificando il terreno dell’antichissima necropoli che era posta in quel luogo. L'area corrispondeva grossomodo all’angolo sud-occidentale dell’attuale piazza Vittorio Emanuele II. Nei musei capitolini sono conservate molte statue, copie di originali greci, provenienti da questi horti. Si tramanda che Mecenate. sia stato il primo a costruire a Roma una piscina termale fornita di acqua calda, probabilmente da localizzare in questi giardini. Dopo la sua morte divennero di proprietà imperiale ed il futuro imperatore Tiberio vi soggiornò lungamente dopo il suo ritorno a Roma (2 d.C.) dall’esilio di Rodi.

I giardini degli imperatori rappresentarono nella storia della città dei veri e propri interventi di architettura del paesaggio che modificarono l’intera urbanistica. Nella “Domus aurea”, che Nerone aveva fatto costruire, il giardino occupava una vasta area compresa tra l’Esquilino, il Foro e il colle Oppio. Svetonio e Tacito ci parlano di boschi, di prati, e persino di un lago.

Grazie agli affreschi di Pompei l’immagine dei giardini è arrivata fino a noi: le pitture rappresentano una grande varietà di alberi e specie vegetali, pergolati coperti di rampicanti, uccelli di ogni specie, vasche e fontane, e padiglioni immersi nel verde. Talvolta costituivano prospettive illusionistiche, che prolungavano verso un immaginario spazio esterno gli ambienti delle stanze - portando al loro interno gli elementi del giardino, altre volte erano vere e proprie scene di paesaggio. Nelle cosiddette pitture da giardino, create, come si è detto, per ampliare in maniera illusoria gli spazi, erano rappresentati alberi, arbusti e piante erbacee, insieme ad animali, di solito uccelli, ma in qualche raro caso anche insetti, chiocciole e lucertole: notissime sono le decorazioni delle pareti di una delle stanze della Villa di Livia a Roma, ma notevoli anche quelle della Casa del Bracciale d’Oro a Pompei.

Gli scavi e le testimonianze preziose come quella di Plinio nella “Naturalis Historia” e gli affreschi che decoravano le case romane dell’area vesuviana, hanno consentito di ricostruire la fisionomia dei giardini pompeiani con informazioni dettagliate sulle specie botaniche e sui loro molteplici usi. La presenza di specie esotiche, come il fiore di loto o la palma da datteri, testimonia l’esistenza di scambi con regioni lontane.

L’arte dei giardini è presente nella storia dell'uomo e ne esprime, con la stessa dignità delle altre opere d'arte, il grado di civiltà, la cultura e la tecnologia e il rapporto uomo-natura, città-campagna, lavoro-tempo libero.

Per chi volesse approfondire l’argomento, di cui abbiamo dato solo un breve cenno, segnaliamo il libro di Pierre Grimal, I giardini di Roma antica.

Nota: l’immagine è un particolare degli affreschi della casa di Livia, Muso Nazionale Romano

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