di Vincenzo Vita.

Quando, venticinque anni fa, uno dei principali guru del mondo tecnologico, l’allora direttore del Media Lab nonché professore al Massachusetts Institute of Technology Nicholas Negroponte, scrisse il celebre volume Being digital, non poteva immaginare che il passaggio dall’era analogica a quella numerica sarebbe stata sospinta da una pandemia. Più che dalle vibrate prediche degli evangelisti dell’innovazione. Già, un effetto collaterale del Covid-19.

E proprio sull’Italia mediale della e nella pandemia si cimenta il terzo rapporto Auditel-Censis, presentato lo scorso lunedì a Roma presso la sala Zuccari del senato. A discutere il testo vi erano Giuseppe De Rita, Andrea Imperiali, Giancarlo Blangiardo, Giacomo Lasorella, Alberto Barachini, rispettivamente presidenti del Censis, dell’Auditel, dell’Istat, dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, della Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai. Insieme al sottosegretario con delega all’editoria Andrea Martella.

Si conferma una verità ormai risaputa, vale a dire che il virus comporta effetti di medio e lungo periodo, in taluni casi senza ritorno. Non sarà certamente un caso se gli investimenti in tecnologia sono diminuiti solo dell’1/2% sul Pil rispetto al 9% generale. E se tra quanti si sono ulteriormente arricchiti vi sono i proprietari degli Over The Top, al cospetto dell’aumento delle povertà.

Non sfugge a simile tendenza l’universo comunicativo. Scandagliato nel documento (che intreccia il 2019 con il 2020) su di campione di 4.870 famiglie. Sempre famiglie, naturalmente, secondo un approccio classico.

Tuttavia, due dati emergono con cinica chiarezza: su un totale di 24 milioni e 285.000 famiglie, 3 milioni e 587.000 hanno un livello socioeconomico e una capacità di spesa bassi. Sul versante opposto sui stagliano 2 milioni e 317.000 nuclei agiati o ricchi. Pressoché omologhe le cifre sull’arretratezza delle e nelle connessioni: 3 milioni e mezzo di famiglie non hanno un collegamento ad Internet; la banda larga su rete fissa è presente nel 77% della fasce alte e medio-alte, e solo nel 19,8% dei meno abbienti. Costituiti in misura sempre maggiore, questi ultimi, da coloro che vivono nel disagio materiale e stanno nelle periferie abbandonate (le baraccopoli digitali, per dirla con il filosofo Luciano Floridi), lontano dalla cittadella iperconnessa e benestante. Se ne vedono le conseguenze nei buchi neri dell’educazione a distanza, dove si incrociano digital e cultural devide. E, se il cosiddetto lavoro agile diventa non l’eccezione, bensì la regola, il tema dei livelli adeguati di connessione diviene un capitolo fondamentale dello stato innovatore democratico. Un diritto di rango costituzionale.

Eppure, nel 2019 erano presenti nelle case ben 112 milioni e 400.000 schermi abilitati a seguire i programmi in modalità tradizionale o in streaming, 600.000 in più rispetto all’anno precedente. Gli smartphone sono al primo posto, con 44 milioni e 700.000 esemplari (+2,4% sull’anno precedente). Seguono gli apparecchi televisivi, 42 milioni e 700.000 (+1,1%). Successo delle smart tv, arrivate a 10 milioni. Se si aggiungono i dispositivi esterni in grado di collegarsi ad Internet, si tocca la soglia di 10 milioni e 400.000 device collegati al Web (+61% sul 2018).

Il rapporto parla, dunque, di boom della vita digitale: una crescita assai forte, con una consistente varietà della fruizione. Ma con i limiti descritti e con le nuove differenze i classe che le tecniche, se non governate, aumentano seriamente. Del resto, l’esigenza di una rete nazionale di diffusione a controllo pubblico nasce proprio da qui. Come ugualmente si dovrebbe passare dalla teoria alla prassi nelle consuete evocazioni di un sistema formativo atto alla bisogna.

Il rapporto ci costringe a pensare che ormai o si fa il digitale o si muore. Ora, poi, con i fondi europei previsti, l’occasione è imperdibile.

Non basta, però, occuparsi della quantità. La mediapolis, così efficacemente descritta dallo studioso Roger Silverstone, sarà partecipata o autoritaria a seconda dei rapporti di forza che si sono aperti nel freddo conflitto in corso. Nell’immaginario.

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