di Vincenzo Vita.

L’avvento del governo presieduto da Mario Draghi, sostenuto da una maggioranza ultralarga, creerà presto problemi non banali per la par condicio radiotelevisiva.

Al di là di ogni giudizio politico. Mentre si approssima la scadenza delle elezioni amministrative comprensive di una popolazione superiore al 25%, tale da far scattare le norme della legge del 2000 sulla par condicio nell’intero territorio nazionale, è bene che le istituzioni preposte comincino a ragionarci. Infatti, se all’opposizione siederanno solo Fratelli d’Italia (FDI), un pezzetto del Mov5stelle e il coraggioso Nicola Fratoianni (ma solo il partito di Giorgia Meloni dispone di autonomi gruppi parlamentari), il rispetto della citata l.28 diviene impervio.

Per esempio, alcune segnalazioni, inerenti al turno elettorale omologo dei giorni 20 e 21 settembre scorsi, lamentavano diverse infrazioni nel tempo di parola attribuito alle diverse parti. Tra l’altro, si considerava sovrastimato nel Tg3 (nel periodo 23-29 agosto del 2020) lo spazio di FDI calcolato in 7,38% del tempo. Già. E da qui a breve? Se l’opposizione viene solo dalla destra-destra, come sarà immaginato e ricomposto l’equilibrio generale? Se la regolazione inerente al periodo stretto della campagna elettorale nelle apposite trasmissioni di comunicazione politica può definirsi in base ad una semplice aritmetica, tutt’altro discorso vale per il resto dei programmi e – in particolare- per l’informazione. Il cuore della vicenda.

Fuori dal computo obbligato vige un’interpretazione improntata al buon senso. Non c’è bilancino burocratico. Bensì la dialettica equilibrata tra i vari punti di vista. Ciò significa che FDI deve avere circa la metà dell’attenzione? E la consuetudine dell’attribuzione di un terzo del tempo al governo non rischia di far esplodere i misuratori?

Insomma, una coalizione di unità nazionale così larga rischia di mettere in soffitta la par condicio, in un senso e nell’altro. Se non si attribuisce un minutaggio adeguato all’opposizione si viola lo spirito della legge, se non si riconosce simile misura si infrange ugualmente il testo. Inoltre, salvo i casi di urgente notiziabilità, i rappresentati del governo non dovrebbero parlare o apparire in video o voce.

Senza dubbio, ecco un limite storico della legge di inizio millennio sulle pari opportunità mediatiche, lo schema normativo fu immaginato per un più classico assetto del sistema politico: bipolare, o quanto meno proporzionale ma non troppo articolato.

Un’ipotesi come l’attuale non era nei presupposti della disciplina. Sarebbe, dunque, necessario rimettere la testa sull’argomento.

Una novella della par condicio sembrerebbe indispensabile, per contemperare sia il giusto equilibrio, sia il diritto di tribuna offerto ai diversi soggetti. Al di là dei vincoli contingenti di alleanza.

Non si tratta, ovviamente, di scardinare i principi essenziali di una legge ancora attualissima a ventun anni dal suo varo. Serve, però, una revisione, che finalmente ricomprenda nell’articolato anche i social oggi relegati ad una sorta di terra di nessuno. E che sancisca un monitoraggio costante dei tempi.

Si dice par condicio, ma si intende anche una scossa salutare da imprimere al tessuto nervoso spesso malato dell’informazione. Conformismi, piaggerie, interviste prone all’interlocutore sono sempre più la normalità dei media mainstream. Non è tollerabile, soprattutto se calcoliamo il numero infinito di ore dedicate al racconto della politica: molto propagandistico e poco argomentativo.

Con l’eccezione di spazi resistenti, l’informazione non è il contropotere, bensì una costola assuefatta del potere medesimo.

Torniamo alle istituzioni preposte, dalla Commissione parlamentare di vigilanza all’Agcom. La particolarità della situazioni esigerebbe indirizzi rigorosi, per tutelare il diritto delle persone ad essere considerate platee di partecipazione attiva e non sudditi utili per l’audience e per la pubblicità.

Infine. Davvero la presidenza delle commissioni di garanzie sarà appannaggio dell’unica opposizione? Anche la consuetudine può cambiare. Non per faziosità, ma per una banale sintassi democratica.

Condividi