di Roberto Bertoni.

Il punto è che lo sanno davvero tutti, tanto che qualche giorno fa persino Libero ha sparato in prima pagina un titolo per una volta pienamente condivisibile: "La morte dei partiti genera solo mostri".
Il punto è che, come a livello economico si è capito da tempo che il liberismo selvaggio ha fallito in ogni angolo del mondo, dal punto di vista politico tutti ormai si sono resi conto del fatto che senza partiti solidi, strutturati e credibili è a rischio la tenuta stessa del sistema democratico.
Il prevedibile fallimento di monsieur Macron, a tal proposito, non ha fatto altro che accelerare un processo già in atto da tempo. A un anno dalla sua elezione, infatti, ci si rende conto che il limite principale dello smodatamente ambizioso Giove che risiede all'Eliseo non è tanto la sua bulimia di potere quanto il fatto che, una volta conquistato il medesimo, non è palesemente in grado di esercitarlo. E non lo è perché nemmeno un monarca repubblicano, qual è, da De Gaulle in poi, il presidente francese, può illudersi di governare senza avere alle spalle un partito, una visione del mondo e un'idea chiara circa il futuro del proprio Paese. Spiace dirlo, ma monsieur Macron, una volta esauriti gli slogan pregni di un europeismo stucchevole e le promesse di riportare in alto una Francia in crisi d'identità da almeno tre lustri, non ha altro da dire, e così si avvita su una serie di riforme tanto epocali quanto sbagliate, creando un malcontento che investe i giovani e gli operai, i ferrovieri e coloro che guardano con sospetto al suo frenetico attivismo.
In poche parole, siamo al cospetto di un altro quarantenne che ha puntato sullo sfascio del sistema, lo ha alimentato credendo di potersene servire per fini personali e, una volta giunto nella stanza dei bottoni, ne è stato travolto. Solo col proprio ego, con la propria boria, con la propria furia vendicativa e non supportata da idee adeguate alla fase storica che stiamo attraversando, palesemente insicuro e fragile, monsieur le president appare già un Hollande con vent'anni di meno, con l'aggravante di aver dato vita ad un soggetto politico che tale non è e i cui membri sono i primi a non credere né nella politica né nella dialettica parlamentare.
E qui torniamo a noi e alle nostre assonanze con lo sfacelo transalpino, alle nostre latitudini reso ancor più drammatico da una crisi di sistema che si protrae ormai da venticinque anni e che ha condotto alla progressiva scomparsa del concetto stesso di partito. Anche da noi, proprio come in Francia, una classe dirigente giovane e smisuratamente ambiziosa ha puntato sullo sfascio del sistema, ne ha approfittato per salire al potere e, una volta giunta nella stanza dei bottoni, non ha saputo né cosa dire né cosa fare né come comportarsi al cospetto di una crisi epocale che avrebbe avuto bisogno di ben altre competenze e di una profondità culturale e di pensiero di cui né Renzi né Salvini né Di Maio dispongono.
Anche loro, al pari di Macron, si sono presentati come il nuovo, come gli alfieri della rivoluzione e all'atto pratico hanno miseramente fallito, tanto che stiamo assistendo, da quasi due mesi, agli insulsi tentativi di formare un governo che tale purtroppo non potrà essere, visto che parte con il peccato originale dell'irresolutezza dei leader.
C'è chi sostiene che una delle cause di questo marasma sia dovuta al fatto che abbiamo a che fare con dei personaggi troppo giovani per saper maneggiare la delicata dialettica del proporzionale, intrisi come sono di maggioritatismo e schemi che nulla hanno a che spartire con lo spirito della nostra Costituzione ma purtroppo affermatisi, di fatto, dal '94 in poi. E questa è senz'altro una spiegazione plausibile e da tenere in considerazione. Tuttavia, ce n'è un'altra, a parer mio ancora più significativa, ed è la scomparsa del concetto stesso di ideologia. Quando un leader politico, Di Maio nel caso specifico, pensa di poter governare indistintamente col PD o con la Lega, al netto di tutte le critiche che si possono muovere al PD, significa che ha in mente una sola cosa: il potere. Ecco, se c'è un tratto distintivo che accomuna i tre protagonisti delle tre principali forze politiche del momento è la volontà di governare ad ogni costo. E l'aspetto più tragico è che, forse, il più coerente dei tre è proprio Salvini: l'unico che dà l'impressione di avere quanto meno una logica e un minimo di collocazione politica, l'unico che sembra credibile quando afferma di non voler governare con chiunque, benché anche lui sia divorato da un'ambizione eccessiva e prigioniero di una sete di potere che lo ha indotto, nel tempo, a compiere scelte e a stringere alleanze che hanno snaturato la natura della Lega.
Il caso più inquietante, tuttavia, riguarda il PD. E qui sarà bene riflettere su un aspetto finora poco sottolineato ma, proprio per questo, estremamente preoccupante: la natura del renzismo. Lo abbiamo visto all'opera nel PD e ci siamo detti che non era cosa, che non si poteva andare avanti così e che era assolutamente indispensabile costruire qualcosa di nuovo, di diverso e di altro. Ciò che purtroppo siamo costretti a constatare è che questo modo di agire, ad opera della suddetta categoria, non riguarda solo il PD ma anche molti altri luoghi, nei quali questo gruppo si insinua, si costituisce in una sorta di struttura parallela, comincia a sparare sul quartier generale e, infine, prende il potere, svuotando la comunità originaria dei propri valori, delle proprie tradizioni e del proprio modo di essere e rendendola un qualcosa di irriconoscibile e, di fatto, assoggettato ai desiderata di un'associazione privata. Da questa colonizzazione sostanziale, agevolata dalla coazione a ripetere i propri errori da parte di quelle che un tempo avremmo definito le vittime ma oggi non esitiamo a definire i corresponsabili della catastrofe, deriva l'allontanamento delle risorse migliori e delle figure più competenti nonché il progressivo dissanguamento di quello che un tempo era il centrosinistra e oggi è una sorta di entità astratta, una struttura priva di senso che, giustamente, è ormai ridotta quasi alla lotta clandestina in molte parti d'Italia. Che fare, dunque? Urge un minimo di chiarezza. Con il renzismo bisogna chiudere i conti alla svelta, isolarlo e prenderne le distanze, considerandolo un avversario proprio come la Lega e il centrodestra nel suo insieme e ben più del M5S. Bisogna dire loro con franchezza che nessuna alleanza è possibile, nessun confronto è auspicabile e che il processo di distruzione che hanno attuato rimarrà nei manuali di politica come un esempio di ciò che mai andrebbe fatto all'interno di una collettività. Dopodiché, abbandonati a se stessi i fautori dell'enmarchismo inutile e dannoso, bisognerà tornare a costruire un soggetto in grado di mettere in contatto le sensibilità laiche e quelle cattoliche, definendo una base che non può più essere il vecchio Ulivo, essendo trascorsi ormai ventidue anni, ma che non dovrà neanche discostarsi troppo da quell'esperienza, ponendo tuttavia un discrimine significativo per quanto concerne l'ambito economico e delle riforme sociali.
Il renzismo ha devastato la sinistra, smantellato il PD, minato una miriade di rapporti umani e avvelenato il nostro mondo, al punto che ormai molti commentatori danno per scontato che nei prossimi dieci anni assisteremo ad un bipolarismo insolito, e per me tremendo, fra una destra a trazione lepenista e un soggetto ambiguo come quello pentastellato.
Chi ha a cuore il Paese sa che con l'arroganza, la presunzione e la cattiveria non si va da nessuna parte. Chi ha a cuore il Paese sa che bisogna tornare a fare politica, smetterla con fesserie come la post-ideologia e ricostruire un partito e una coalizione degni di questo nome. In caso contrario, sarà la fine. Probabilmente, non solo per dieci anni.

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