di Vincenzo Vita.

Malgrado due prestigiose nomination per l’Oscar come Luca Guadagnino per il miglior film (“Chiamami col tuo nome”) e Alessandra Querzola per l’arredamento (“Blade Runner 2049”), il cinema italiano continua ad arrancare pericolosamente. Il dato clamoroso è stato quello del calo vertiginoso degli incassi delle opere italiane in sala: -46,3% rispetto al 2016, in confronto al “solo” -11,6% sul totale. Ora, tra Verdone e Albanese, forse va un po’ meglio. Tuttavia, senza tornare sul commento di cifre così evidenti, è bene chiarire che ciò che accade non è una novità. Se si fa eccezione per i casi eclatanti (in primis il citatissimo Checco Zalone), è il cinema inteso come industria culturale a versare in una situazione precaria. Si provi a sottrarre i successi commerciali di occasione o stagionali e si vedrà che la sofferenza è antica. E non è credibile affermare che la legge del novembre del 2016, la cosiddetta riforma Franceschini, possa migliorare le cose. Anzi. Con la l. 220 si accentua il malanno fondamentale, non unico motivo, ma certamente concausa della crisi. Vale a dire l’equiparazione normativa tra prototipo cinematografico e serialità televisiva. Quest’ultima, talvolta assai curata nell’estetica e nella struttura narrativa, ha ingoiato la componente del cinema medio di qualità, di consumo pur senza cedimenti alla banalità. Insomma, ciò che rende forti le cinematografie nazionali quando reggono. Il caso francese sta nella porta accanto. La produzione “mediana”, che funziona in termini di biglietteria e di successo, è soppiantata dalla comoda (anche fiscalmente) attrazione del video. Dove il ruolo del regista cambia, e dove è la televisione ad assumere il comando. Tanto è evidente l’egemonia del piccolo schermo (inteso come catena del valore), che spesso l’opera in sala è solo la matrice della fiction di durata.

Con le dovute eccezioni, la categoria dei produttori ha parecchie colpe, avendo scelto per sé una collocazione ancillare, senza vera visione strategica. Del resto, la “riforma” è disegnata su misura per il limitato raggruppamento che costituisce l’italiano capitalismo audiovisivo. Qui sta la contraddizione. Il cinema-cinema è costretto a navigare ai margini del sistema e si salva solo con atti di eroismo creativo o di serio rischio per chi investe in modo indipendente.

La vecchia macchina è alquanto arrugginita, stretta com’è tra le chiusure delle sale di prossimità e i nodi della distribuzione, concentrati in tenaci e possessive mani. La sciagurata politica delle “finestre”, aperte e chiuse in pochissimi giorni, fa sì che la tenuta in sala sia brevissima. Come se il luogo

della fruizione collettiva sia diventato solo un’effimera introduzione dello sfruttamento da parte delle diverse piattaforme diffusive.

L’epoca digitale, in queste condizioni, rischia di diventare un definitivo bagno di sangue. Nell’era degli Over The Top solo una forte industria dei contenuti è in grado di reggere alla frammentazione dei modelli che si impongono.

Una scelta è indispensabile, con un divorzio e un matrimonio. La separazione deve avvenire con la televisione. Ciò non significa, ovviamente, un nostalgico isolazionismo. Anzi. Il matrimonio del millennio è con la rete, attraverso un intelligente compromesso tra il cinema storico e le odierne attitudini “prosumeristiche”, intreccio e contaminazione tra le forme della produzione e quelle del consumo.

Naturalmente, serve una vera legge di sistema. In fondo, a breve si vota. E chissà che se ne parli.

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