di Leonardo Caponi

Nella notte tra il 6 e il 7 Novembre del 1917 del calendario gregoriano (24 e 25 ottobre secondo il vecchio calendario giuliano), cento anni fa, in una Pietrogrado politicamente incandescente, capitale dell’impero zarista, la frazione bolscevica del Partito Socialdemocratico russo rompeva gli indugi e, conquistata la maggioranza dei delegati al Congresso panrusso dei Soviet, forzava la tattica incerta e dilatoria dei menscevichi e delle altre forze di opposizione al potere zarista e guidava l’assalto al Palazzo d’Inverno nel quale era riunito il governo Kerenskij l’ultimo tentativo della borghesia russa e dei settori moderati di conservare per se il potere dopo il crollo dello zarismo ed evitare un più profondo rivolgimento politico e sociale del Paese. Tra le una e le due di notte i rivoluzionari, trovando una debole resistenza, fecero irruzione nel Palazzo e procedettero alla deposizione del governo e all’arresto di quasi tutti i ministri, a coronamento di un atto che, per gli anni a seguire, avrebbe avuto anche un grande valore simbolico.

La Rivoluzione d’Ottobre fu un errore e, come oggi la gran parte della pubblicistica è orientata a far credere, l’inizio di un’epoca di errori ed orrori da cancellare e dimenticare al più presto? O fu un grande atto liberatorio, il secondo dell’epoca moderna dopo la Rivoluzione Francese, che ha comunque lasciato un segno, aperto una fase nuova della storia del mondo ed è anche destinato, a dispetto della più recente evoluzione, a tornare in auge?

Si possono avere opinioni diverse, ma il valore dell’Ottobre in se, non può essere negato. I primi due atti del Consiglio dei Commissari del popolo, presieduto da Lenin, al quale fu delegato in una prima fase il governo del Paese, furono il Decreto sulla Pace e il Decreto sulla Terra. Si trattò di due misure di straordinaria rilevanza e di vitale importanza: il primo, il ritiro unilaterale dalla guerra, era finalizzato a salvare un paese stremato e risparmiargli altri inenarrabili lutti, pene e sacrifici; il secondo, la confisca dei latifondi e la consegna della terra ai contadini, era rivolto a combattere uno stato di fame e denutrizione secolare, reso tragico dalla guerra.

Nelle settimane e nei mesi successivi, a misura che la rivoluzione e il potere dei soviet si consolidava ed estendeva nel paese, vennero promulgati (cito a memoria) il decreto sulle nazionalità (tutti i territori dell’ex impero e oltre cento etnie venivano messe su un piano di parità, senza supremazia russa), quello istitutivo delle otto ore lavorative, quello sul diritto all’istruzione e alle cure gratuite per tutti, quello sul matrimonio civile, il divorzio e la parità uomo donna, sulla separazione dei beni tra stato e religioni e tra le diverse religioni. Al vecchio sistema giudiziario si sostituivano i tribunali del popolo inizialmente di tipo elettivo; la polizia veniva sostituita da una milizia composta prevalentemente di operai. Nell’esercito venivano cancellate le differenze di trattamento fra soldati e ufficiali. Ci fu poi il decreto sulla nazionalizzazione delle banche. Si tratta, come si vede, di leggi e provvedimenti che ancora oggi, a quasi cento anni di distanza, mantengono una straordinaria attualità e che, nella gran parte del mondo, compresi anche Paesi dell’Occidente sviluppato come il nostro, avrebbero una carica fortissima di modernità, innovazione e giustizia.

Come mai e per quali cause una vicenda storica iniziata con queste grandi premesse sia finita come è finita (per ora) è stata materia di una indagine e discussione che, anche tra le forze che, dopo il crollo dell’Urss, hanno deciso di non ammainare bandiera e piegarsi alla ideologia del liberismo come hanno fatto gli ex comunisti del Pci, non ha avuto l’impegno e la profondità che avrebbe meritato. Forse una delle ragioni del fallimento di Rifondazione comunista è proprio questa. A discutere e riflettere oggi c’è da essere presi per matti, ma invece bisognerebbe trovare i luoghi e le sedi per farlo, come una delle condizioni per la ricostruzione, idea che io non mi sento di abbandonare, di una significativa presenza comunista in Italia e in Europa. Personalmente, anche se mi rendo conto che la vastità del tema non può essere che essere sfiorata in un articolo come questo, ritengo che abbiano concorso vari elementi. Due estati fa ho riletto con calma la Storia dell’Unione Sovietica dell’indimenticato giornalista e intellettuale comunista Giuseppe Boffa che, al di là delle numerose vulgate, semplificazioni e volgarizzazioni che della rivoluzione bolscevica hanno fatto vari altri testi, mi pare un’opera di grande obiettività e rigore e di assoluta serietà e utilità sulle vicende dell’Unione Sovietica e ne consiglierei, a molti anni di distanza ormai dalla prima pubblicazione, parliamo della fine degli anni ’70, la lettura o rilettura.

Io penso che l’Urss è crollata per motivi di ordine esterno, ma anche interno e soggettivo. L’interpretazione che respingo è che la sua fine fosse già scritta, come dire?, nelle modalità della sua nascita, anche se non c’è dubbio che una delle sue debolezze è stata quella di essersi verificata, contrariamente alle previsioni di Marx e dei rivoluzionari del tempo, in uno dei punti più arretrati dello sviluppo del capitalismo che, ma di questo Lenin aveva piena coscienza, nell’Europa Occidentale, col colonialismo e la creazione di una aristocrazia operaia integrata nel sistema, poteva far prevalere la socialdemocrazia sui comunisti e mantenere i suoi governi al potere. L’accerchiamento imperialista ha pesato in maniera schiacciante in tutta la storia sovietica, divorando infinite risorse per spese militari e distogliendole dagli usi civili. La sfida al riarmo militare, persa durante la presidenza Reagan in America, ha compiuto l’opera. Non penso che la storia dell’Urss sia quella di una dittatura imposta con la forza per 70 anni. La vittoria sul nazismo non può essere spiegata solo col pur fondamentale sentimento patriottico che animava le popolazioni sovietiche, se non vi fosse stato anche un diffuso consenso politico nei confronti del governo e del regime che, a ragione dopo la guerra, poteva sostenere di aver trasformato in pochi decenni, uno stato feudale nella seconda potenza mondiale. Credo che l’involuzione e la stagnazione economico politica con conseguente passivazione del popolo e insoddisfazione della sua condizione materiale, che ha portato al crollo, sia maturata nel secondo decennio brezneviano, dove i difetti di un sistema economico rimasto, anche davanti ai suoi successi, troppo centralizzato e burocratizzato che generava il problema, secondo me di capitale importanza, della scarsa produttività del lavoro oltre alla arretratezza tecnologica, ha accentuato questioni rimaste sempre irrisolte nella storia dell’Urss, come la non autosufficienza alimentare e della produzione agricola (la questione contadina mai conclusa), la mancanza di abitazioni per tutti, servizi e produzioni di beni di consumo scadenti, per mantenere un gigantesco apparato militare e di industria pesante ecc. Tutto ciò ha fatto da base materiale all’abiura e al “tradimento”, come in altra dimensione è avvenuto in Italia nel Pci, di una parte del gruppo dirigente sovietico a cominciare dal pavido e confuso Gorbaciov, dall’ambiguo Shevardnadze e da un ubriacone molesto, Eltsin, caricatisi di una responsabilità storica unica (un impero che, invece che riformarsi come era giusto, si autodistrugge) e imperdonabile.

Quel che è certo però è che il segno e il sogno di un’era nuova, aperto dalla Rivoluzione d’Ottobre, non è stato e non può essere cancellato. Questa affermazione non è una romanticheria, una illusione, un sogno infondato. Il punto di vista dal quale, in Europa e in Occidente, è filtrata la immagine del mondo è costituito dalla vittoria (transitoria) del liberismo. Ma, al contrario, le idee e i valori che hanno ispirato i moti dell’Ottobre, la giustizia sociale, l’emancipazione delle classi oppresse, l’uguaglianza, l’anelito alla amicizia e alla pace tra le genti e i popoli, in buona misura la creazione dello stato sociale in Occidente, sono rimaste impresse e vivono, anche sottotraccia in qualche caso, nel pensiero politico moderno e nel senso comune. E, poi, non ci sbagliamo! La maggioranza degli abitanti del pianeta è governata o subisce l’influenza di partiti e movimenti comunisti o che si rifanno, pur con esperienze diverse e anche apparentemente contraddittorie, alle idee del comunismo. Non penso solo alla “piccola” Cuba, agli stati del Caribe, ma anche a potenze grandi o nascenti come la Cina, il Vietnam, dirette da partiti comunisti e a Stati come l’India e il Sud Africa, dove operano e influiscono forti partiti comunisti. Anche in questa nostra Europa, martoriata dal rigorismo liberista, nascono, in forme nuove, sinistre radicali all’interno delle quali, questo è il mio personale giudizio, possono trovare un contenitore valido le idee più tradizionali della rivoluzione comunista.

Del resto, qualche giorno fa, era lo stesso Corriere della Sera, con un singolare articolo che sembrava voler mettere in guardia, più che i suoi lettori, i suoi padroni, cioè la grande borghesia, a insistere sul fatto che il leninismo non è finito e trova applicazione in molte nazioni e parti del mondo.

Cento anni dopo quella notte dell’Ottobre del ’17, si può dunque ragionevolmente coltivare il sogno e la speranza di conquistare nuovamente, con lavoro e pazienza, il Palazzo d’Inverno.

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