di Roberto Bertoni.

Scrivo al termine di una settimana difficilissima per la politica italiana, con la certezza che quella che è appena iniziata sarà ancora più intensa e, temo, peggiore dal punto di vista dei decibel dello scontro tra le varie fazioni.
Corriamo, infatti, ad ampie falcate verso il delicato voto siciliano, a mio giudizio meno decisivo di quanto non sostengano alcuni colleghi ma comunque indicativo delle tendenze in atto nel Paese, a pochi mesi dal voto delle Politiche.
Un test, quello della Trinacria, assai più importante per Di Maio che per Renzi. Il PD si sa che non ha alcuna chance: ha candidato un onesto rettore scelto da Leoluca Orlando e accettato dai vertici del Nazareno per mancanza di alternative e l'ha mandato alla sbaraglio, senza alcun vero sostegno dal nazionale, fino all'assurda decisione dell'uomo di Rignano di partire per un viaggio in treno senza mettere in calendario una sola tappa nell'isola. Sa che perderà e male, dunque, come alle Amministrative dello scorso giugno, non intende metterci la faccia. Qualche problema gli si potrebbe presentare nel caso in cui il candidato della sinistra, l'ottimo Fava, dovesse precedere Micari: non tanto per le conseguenze che ciò avrebbe in Sicilia quanto perché a quel punto il processo costitutivo della lista unica di sinistra subirebbe un'accelerazione e, con ogni probabilità, riceverebbe adesioni di prestigio. Del presidente del Senato ce ne occuperemo a breve.
Di Maio, al contrario, si gioca tutto. Cancelleri, infatti, non è un candidato qualsiasi ma un suo uomo, diciamo quasi il suo clone con l'accento siculo, imposto manu militari attraverso primarie simili a quelle che hanno incoronato il vice-presidente della Camera e lanciato in pompa magna con una capillare campagna elettorale, persino d'agosto, dai massimi esponenti del M5S. Considerando le condizioni in cui versano i partiti un po' ovunque, e in Sicilia in particolare, se un onesto missino con dietro liste alquanto discutibili come Musumeci dovesse riuscire a prevalere, nonostante Forza Italia non sia più la macchina da guerra del 2001, Salvini al Sud praticamente non esista e la Meloni quasi, vorrebbe dire che i siciliani non hanno ritenuto credibile l'offerta grillina.
Uno scenario del genere per Di Maio si rivelerebbe un incubo: una sconfessione su tutta la linea che restituirebbe voce ai duri e puri del Movimento e ne minerebbe credibilità e autorevolezza, specie se pensiamo che la Raggi a Roma sta combinando disastri su disastri e la tiene a galla lui giusto per non compromettere le proprie ambizioni di guida del Paese, che anche la Appendino, benché più autonoma, non sta brillando come l'anno scorso e che nel resto d'Italia le amministrazioni pentastellate, oggettivamente, non stanno dando buona prova di sé.
Tornando al PD, c'è poco da sperare in una resipiscenza del duo Franceschini-Orlando: non hanno filo da tessere né possono smarcarsi dopo aver condiviso al governo tutte le scelte che hanno prodotto la scissione dei bersaniani e tanta straziante disaffezione da parte dei militanti storici della sinistra.
Se resa dei conti dovrà essere, essa avverrà dopo marzo, quando il PD rischia avvero di andare incontro ad una catastrofe senza precedenti.
Il suddetto è, difatti, un partito mimetico, privo di qualunque ideologia che non sia il collante del potere e, pertanto, soggetto a identificarsi con i propri dominus locali: quei portatori di voti che, tra una frittura di pesce e l'altra, fanno il bello e il cattivo tempo. E così abbiamo un PD a trazione leghista nel lombardo-veneto, un PD neo-borbonico in Campania, con Re Vincenzo a dividere ed imparare senza rivali, un PD Masaniello nella Puglia di Emiliano, il partitone d'antan nelle regioni ex rosse, benché anche lì gli scricchiolii siano ormai molteplici, e un PD forzaitaliota in Sicilia.
Vale per tutti, sia chiaro: sono camelontici pure i 5 Stelle e la stessa Lega si presenta almeno in tre versioni diverse, ossia quella bossiana di Zaia, la Lega delle origini, quella lepenista di Salvini e infine quella di mediazione incarnata da Roberto Maroni.
In assenza di un pensiero ispiratore, che i partiti si trasformino in comitati elettorali al servizio di questo o quel leader locale è perfettamente logico.
E qui veniamo alla sinistra. Questa sconclusionata e litigiosissima parte politica ha davvero l'occasione della vita: l'uscita di Grasso dal PD, infatti, è destinata a lasciare il segno, soprattutto per la perizia di quest'ultimo nel provocare il terremoto nella settimana della forzatura della fiducia al Senato sulla legge elettorale e della riconferma di Visco al vertice di Bankitalia, dopo giorni di polemiche e dichiarazioni al vetriolo ad opera di un Renzi che non ha ancora capito che inseguire Lega e 5 Stelle sul loro terreno preferito porta ancora più voti a questi ultimi e tende a dare l'idea di un Partito Democratico irresponsabile e irrispettoso della dignità delle istituzioni.
Grasso non è un mero uomo di partito, con tutto il rispetto per chi ai partiti e alla politica ha consacrato la propria vita: non è neanche il salvatore della patria, per carità, ma è un simbolo e un indicatore fondamentale di ciò che sta accadendo.
Si scrive Grasso ma, probabilmente, si leggono molti altri nomi della stessa scuola e della stessa caratura: soggetti cui è impossibile dare dei gruppettari o attribuire qualsivoglia pulsione estremista, trattandosi di personalità di primo piano della vita pubblica del Paese, con un prestigio ed una biografia che parlano da soli.
Se davvero la punta di lancia della sinistra dovesse essere lui, per il PD sarebbe notte fonda: perderebbe praticamente in tutti i collegi uninominali, non riuscirebbe a portare in Parlamento più di 140-150 parlamentari per quanto riguarda la Camera e di un'ottantina per quanto riguarda il Senato, si vedrebbe costretto a dar vita ad un esecutivo folle ed effimero con Forza Italia e Lega (da questo punto di vista, lo scenario siciliano sarà illuminante) e completerebbe il proprio processo di pasokizzazione.
La sinistra, pertanto, non deve avere fretta: deve partire dal presupposto che la prossima sarà una legislatura breve e tristissima e iniziare a lavorare si d'ora per il futuro, cogliendo il passaggio d'epoca e comportandosi di conseguenza.
Se Grasso sarà vissuto come la punta dell'iceberg di un processo ben più ampio di ridefinizione degli equilibri politici globali e non come l'ennesimo leader da bruciare nell'arco di poco tempo, la sinistra avrà compiuto il salto di qualità e potrà prepararsi a governare quando il partito unico del Nazareno, con annessi Alfano e Verdini, avrà esaurito le ultime cartucce che gli restano prima della resa.

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