da Jacobin Italia.

Una delle vittorie più importanti segnate dal capitalismo nella sua fase neoliberista a partire dagli anni Ottanta è stato il consolidamento dell’individualismo e il parallelo indebolimento dei soggetti e delle azioni collettive. La fine dell’Unione sovietica e la feroce controffensiva, iniziata già in precedenza, portata avanti da Ronald Reagan, Margaret Thatcher e Giovanni Paolo II, aprì le porte a un crescente discredito, quando non a un vero e proprio diniego dell’idea del sociale così come concepito fin dalla definizione aristotelica dell’uomo come “animale sociale”.

Al suo posto si è insediata con forza travolgente l’idea che la società non è altro che la somma di un infinito numero di atomi individuali e che di conseguenza esiste solo “salvezza” individuale (o redenzione, o ascesa sociale, il lettore scelga il termine che più gli piace), prodotto della lotta dell’individuo. Questa prepotente rinascita dell’individualismo della scuola di Manchester interpreta lo Stato solo come un agente che si intromette con l’effetto di ostacolare il progresso personale. Fu proprio Margaret Thatcher a sintetizzare con tagliente precisione questo clima culturale, quando, interrogata sull’impatto che stavano avendo sulla società le sue dure politiche di ristrutturazione regressiva del capitalismo britannico, rispose negando l’esistenza stessa della “società”. L’unica cosa che esiste, disse la Primo Ministro inglese, sono John e Mary, Peter e Kathy, parlare di società è un nonsense completo.

L’altra faccia di questa brutale negazione della società è la depoliticizzazione indotta dal capitalismo per mezzo dei suoi apparati ideologici. Così vengono poste le condizioni più propizie per assicurare la “normalità” dell’accumulazione capitalistica: si crea un’enorme massa popolare atomizzata, disorganizzata, disinformata e depoliticizzata, preoccupata solo di assicurarsi il proprio sostentamento, che rinuncia a qualsiasi forma di strategia collettiva e confida ciecamente nell’efficacia dei suoi propri sforzi. Così, si trova a credere che la sua disciplina, la sua austerità, la sua sottomissione al lavoro la renderanno meritevole dell’anelata ascensione sociale. Non è casuale che indifferenza e apatia politica fossero esaltati dai teorici della Trilateral, e in particolar modo da Samuel P. Huntington, come sintomi di una democrazia in piena salute. La combinazione fatale tra la diserzione degli individui dai loro inquadramenti collettivi (partiti, sindacati, movimenti sociali di altro tipo) e il profluvio di post-verità (e “plus-menzogne”) di una stampa che da tempo ha smesso di fare giornalismo. Il famoso “istinto killer” degli imprenditori, di cui si parla in tutte le business school, incontra un terreno propizio per la sua opera predatoria. Ed è un istinto che non solo è servito a impoverire le masse popolari e a precarizzare le loro condizioni di esistenza, tanto nel mondo sviluppato quanto nella periferia del sistema, ma è stato anche un fattore decisivo nell’inarrestabile deterioramento dei sistemi democratici, diventati sempre più improntati a corrose formalità di facciata che non riescono a nascondere il fatto che dietro di queste è emersa una plutocrazia che governa ogni giorno di più in aperta flagrante contraddizione con l’ideale democratico.

Questa doppia involuzione, di una società che si disintegra nei suoi atomi individuali e di un democrazia che scivola sempre più verso la plutocrazia, non è avvenuta senza incontrare resistenze popolari. In alcuni paesi dell’America Latina le resistenze sono state vigorose, e nel primo decennio di questo secolo avevano dato origine a numerosi governi di sinistra o progressisti che riuscirono a contrastare, almeno parzialmente, le frange più violente della controrivoluzione neoliberista. In altri paesi, la resistenza è stata minore, ma comunque presente, e tutto lascia pensare che con l’aggravarsi della crisi globale del capitalismo – iniziata nel 2008 e tuttora dispiegante le sue ombre sull’economia mondiale – è solo una questione di (breve) tempo perché risorga la protesta sociale. Le reazioni sempre più virulente suscitate dai meeting del G7 e del G20 mostrano inequivocabilmente che nonostante la disorganizzazione e lo scarso livello di articolazione internazionale la protesta anticapitalista sta crescendo, probabilmente con un’intensità che non si vedeva da molto tempo.

Perché queste proteste siano coronate dal successo, tuttavia, sarà necessario mettere in atto una ferma controffensiva sul terreno delle idee e della cultura. Sarà necessario ripoliticizzare la vita sociale e dimostrare la fallacia delle soluzioni precedenti, quelle dell’antipolitica o di coloro che dicono di arrivare dal di fuori del mondo della politica, come Donald Trump negli Stati uniti, Mauricio Macri in Argentina, Sebastian Piñera in Cile o Jair Bolsonaro in Brasile. In questi casi il capitale passa a governare direttamente “in proprio”, prescindendo dai suoi fastidiosi, e spesso inetti, rappresentanti politici, la cui mediazione resulta sempre meno necessaria. Ripoliticizzare comporta né più né meno, l’attualità di quella vecchia formula leninista che definiva la politica come «l’espressione concentrata dell’economia», sottintendendo che chi abbandona la politica lascia il terreno in mano al suo nemico di classe. L’antipolitica è quindi una nuova perversa forma di fare politica, occulta il fatto che le masse non avranno salvezza possibile al di fuori di una strategia collettiva – e cioè politica – di resistenza al capitalismo e all’imperialismo, flagelli che condannano alla povertà i paesi sottosviluppati e corrodono giorno per giorno il modico benessere conquistato in alcuni paesi del mondo sviluppato durante gli anni d’oro del welfare state keynesiano.

*Atilio A. Borón è professore alla Università nazionale di Avellaneda e direttore del Pled, Programma Latino-americano di educazione a distanza in scienze sociali. Questo è il testo del suo contributo al convegno There is NO alternative, promosso dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.

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