da Invictus.

“Coloro che non sanno ricordare il passato sono condannati a ripeterlo.” George Santayana

Il 27 gennaio del 1945 i soldati sovietici si trovarono di fronte ad un cancello. Su di esso c’era una scritta, “Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi. Varcarono quel cancello. Trovarono degli uomini che non erano più uomini, trovarono l’orrore, scoprirono Auschwitz.
Auschwitz è un “non luogo”. Auschwitz è la negazione dell’umanità. Auschwitz è memoria. Auschwitz è un monito. Auschwitz è il freddo. Auschwitz è neve. Auschwitz è il camino. Auschwitz è fumo e ceneri. Auschwitz è il vento. Auschwitz è “zyklon B”. Auschwitz è la soluzione finale della pazzia. Auschwitz è abominio. Auschwitz è un numero, un numero indeterminato. Un numero che oscilla tra un milione e un milione e mezzo di uomini, donne, bambini, anziani, ebrei, testimoni di Geova, sinti, rom, omosessuali, oppositori politici, malati. Un milione e mezzo di individui umiliati, seviziati, torturati, annullati, cancellati, uccisi, bruciati. Un milione e mezzo di esseri umani assassinati dal pregiudizio, dall'odio Questa è la storia di uno di quegli uomini. È una storia per anni dimenticata, cancellata. L’esistenza di quell'individuo si era persa. Era stata inghiottita dalla guerra, dall'atrocità, dal silenzio, dalla follia, da Auschwitz.
Arpad Weisz nasce a Solt, in Ungheria, il 16 aprile del 1896. Il padre Lazzaro e la mamma Sofia gli diedero il nome dei quell'antico condottiero, capostipite della dinastia degli Arpadi. Arpad è un ragazzo ebreo schivo, timido, educato, elegante. Al termine degli studi liceali si iscrive alla facoltà di giurisprudenza, all'università di Budapest. È un idealista, crede nella giustizia e nella legge. Ha anche una passione viscerale per il football. All'età di 15 anni comincia a giocare nelle giovanili del Torekves, una piccola squadra della capitale ungherese. È un’ala sinistra molto tecnica e agile.
Allo scoppio del primo conflitto mondiale, la carriera di Arpad e i suoi studi vengono interrotti. Si arruola volontario nell'esercito austro ungarico. Viene catturato dai soldati italiani sul monte Mrzli e internato a Trapani.
Al termine della “Grande Guerra”, riprende la carriera calcistica, non gli studi. La passione per il calcio prevale su quella per il diritto. Torna a giocare nel Torekves. Nel 1923, lascia la squadra magiara per approdare al Maccabi Brno. Arpad è bravo, è forte. È così bravo da meritare la nazionale. Con la selezione ungherese colleziona sei presenze. Il 4 marzo del 1923 a Genova si disputa l’amichevole tra Italia e Ungheria. Arpad è convocato. L’incontro termina con un pari, 0-0. Per la prima volta gli italiani riescono a non prenderle dai magiari. Quell'ala sinistra agile e dal buon cross viene notata, ammirata da tifosi e addetti ai lavori. Nel 1924 viene ingaggiato dal Padova. Nel 1925 passa all'Inter. L’inizio è incoraggiante. Dieci presenze e tre gol. Problemi fisici ne condizionano il rendimento. Il 4 luglio del 1926 disputerà la sua ultima partita in assoluto. Un grave incidente al ginocchio lo costringe ad appendere le scarpette al chiodo. Il futuro di Arpad è segnato, è chiaro, è quello di allenare. Dopo una breve parentesi ad Alessandria come allenatore in seconda, torna all'Inter come responsabile della prima squadra. Weisz è innovativo, rivoluzionario. Al campo di allenamento si presenta in pantaloncini e maglietta. Si mette alla testa del gruppo. Corre con i ragazzi, ne cura la preparazione fisica personalmente. Cura le diete. Promuove la pratica del ritiro prepartita. È innovativo sul piano tattico. È un estimatore del “Sistema” di Herbert Chapman, leggendario allenatore dell’Arsernal. Lo introduce in Italia, lo fa assimilare ai suoi giocatori. Si occupa anche delle selezioni giovanili. Ha sempre un occhio di riguardo per le giovani promesse. All'Inter viene folgorato da un ragazzino di 17 anni, un cecchino formidabile che non esita a far esordire in prima squadra. Quel ragazzino è Giuseppe Meazza.
L’Italia del 1929 è fascista. È l’Italia del Duce, dell’autarchia economica e linguistica. Il regime non tollera nomi e denominazioni stranieri. Arpad è costretto ad italianizzare il suo cognome. Basta mutare la “W” in “V”. Anche la sua amata e bellissima moglie Ilona è costretta a cambiare nome, ad italianizzarlo in Elena. Anche l’Inter è costretta a cambiare denominazione in Ambrosiana.
Il campionato italiano del 1929/1930 cambia formula: non più due gironi, uno del sud e uno del nord, ma un girone unico. Nasce la Serie A. L’Ambrosiana di Veiz, dopo una lunga cavalcata, è campione d’Italia. Arpad, a 34 anni, è il più giovane allenatore a vincere lo scudetto. Record tuttora imbattuto.
Il campionato 1930/1931, si conclude con l’Ambrosiana al quinto posto e ad Arpad non viene rinnovato il contratto. La stagione successiva è sulla panchina del Bari. In un drammatico spareggio riesce a salvare i pugliesi dalla retrocessione. La sua avventura a Bari dura una sola stagione. Torna sulla panchina dell’Ambrosiana del nuovo presidente Ferdinando Pozzani. Pozzani è ben visto dal fascismo. È un uomo appassionato, ambizioso, vulcanico. Il sodalizio con Weiz dura soltanto due stagioni nelle quali i nerazzurri ottengono due secondi posti. Il rapporto tra Arpad e Pozzani non è dei migliori. Il presidente è troppo “invadente” nelle questioni tecniche, è troppo distante dalla sua visione calcistica. Il divorzio è inevitabile. Nel 1934 passa ad allenare in Serie B, il Novara. Il rapporto con i piemontesi dura solo sei mesi. Nel gennaio del 1935 Arpad Weisz è il nuovo allenatore del Bologna, voluto fortissimamente dal presidente rosso-blu Renato Dall’Ara.
Arpad a Bologna trova la sua dimensione, la sua piena maturità professionale. La famiglia Weisz, Arpad, Elena e i piccoli Roberto e Clara, abitano in via Valeriani 39, nel quartiere Saragozza a mille passi dal “Littoriale”, l’imponente stadio voluto dal potente gerarca fascista Leandro Arpinati e “vigilato” dall'alto della torre di maratona dalla dea Nike, rappresentante la vittoria alata. Arpad plasma la squadra, la forgia per vincere. Dopo la prima stagione terminata con un sesto posto, Weisz costruisce “lo squadrone che tremare il mondo fa”, lo “squadrone” di Schiavio, Fedullo, Sansone, del centromediano inesauribile Andreolo, del terzino Fiorini, Biavati, Puricelli, Monzeglio. Nel 1935/36, Il Bologna è campione d’Italia. Arpad è il primo tecnico, nella storia del calcio italiano, a vincere il campionato con due squadre diverse. L’anno successivo lo “squadrone” si ripete in campionato. Nello stesso anno, quel magico 1937, Il Bologna trionfa anche al Trofeo dell’Expo di Parigi, una Champions League ante litteram, sconfiggendo in finale i maestri inglesi del Chelsea con un clamoroso 4-1.
Arpad è uno dei migliori allenatori in circolazione. È un vincente, è amato dai suoi giocatori e dai tifosi. Bologna è la sua città, la sua misura. È un uomo schivo, timido, casalingo, non è mondano. Ama a giocare a tennis e le buone letture. È l’antidivo per eccellenza. Il figlio Roberto frequenta le scuole Bombicci. Elena fa la spesa nei negozietti sotto i portici. È una vita felice quella di Weisz. È un’esistenza che da lì a poco è destinata a cambiare.
1938. Arpad sta preparando la sua nuova stagione sulla panchina del Bologna. Lo “squadrone”, nella stagione precedente, ha chiuso il campionato al quinto posto. Come sempre è meticoloso, analitico, attento nel seguire la squadra. Anche l’Italia fascista si prepara al “cambiamento”. Il regime, il Duce sono pronti a varare le leggi razziali. Con R.D.L. del 7 settembre del 1938 N°1381, il regime fascista decreta l’espulsione degli ebrei giunti in Italia dopo il 1919. Arpad non è un ebreo praticante. Non frequenta la sinagoga, né tanto meno la comunità ebraica. Roberto e Clara sono cattolici, non ebrei come i genitori. L’articolo quattro dell’iniqua legge del regime, però, non lascia scampo. Arpad è ebreo, non può, non deve più stare in Italia. Il 16 ottobre del 1938 Arpad Weisz siede per l’ultima volta sulla panchina del “Littoriale”. Il “suo” Bologna sconfigge la Lazio con un perentorio 2-0. Al termine di quella partita, nella totale indifferenza, nella totale inerzia, nel totale silenzio, Arpad è obbligato, a malincuore, ad abbandonare Bologna e l’Italia.
Si trasferisce a Parigi. La speranza è di trovare una squadra da allenare. La ricerca è vana. L’opportunità arriva dall'Olanda. Karel Lotsy, dirigente della squadra di Dordrecht, piccolo centro olandese, propone a Weisz di allenare quella compagine. Nei Paesi Bassi, il calcio è a livello dilettantistico. Arpad è uno dei migliori allenatori in circolazione, negli intenti di Lotsy può, con i suoi metodi, migliorare il calcio olandese, può aiutare il movimento a crescere. Arpad accetta. Si ritrova ad allenare in un piccolo stadio, il Markettenweg. I suoi giocatori sono tutti dei dilettanti che giocano a calcio per passione. La dimensione è cambiata. Il calcio olandese non è ai livelli di quello italiano. Il Markettenweg non è paragonabile all’imponente “Littoriale”. Il Dordrechtschte F.C. non è "lo squadrone che tremare il mondo fa", ma Arpad è sempre lo stesso. È un allenatore bravo, preparato, innovativo,appassionato. È un insegnante del gioco. Con il suo carisma, con la sua grande sapienza calcistica, con la sua sensibilità umana, trasforma quella piccola compagine di provincia. Il primo anno riesce a raggiungere un’insperata salvezza. Nei due successivi campionati, il Dordrechtschte F.C. ottiene due quinti posti, battendo squadre del calibro di Ajax e Feyenoord. È amato dai suoi giocatori, dai tifosi.
Maggio 1940. La Germania invade l’Olanda. È un’invasione lampo, quasi indolore. Nel giro di quattro giorni, i Paesi Bassi si ritrovano sotto il gioco nazista. Arpad è ebreo. Non importa che sia un allenatore bravo. Non importa che sia un uomo onesto e dalla cifra notevole. Non importa che sia amato e rispettato dai suoi giocatori. Non importa che sia ben voluto dalla gente. Arpad è ebreo ed è la sua condanna. Gli viene vietato di lavorare, di allenare. Gli viene vietato di andare allo stadio a vedere una partita di calcio, ad osservare i “suoi” ragazzi. Gli viene vietato tutto. Arpad pur di vedere il suo Dordrechtsche giocare, si nasconde dietro le gradinate del Markettenweg. I nazisti potevano vietargli tutto, ma la grande passione per il calcio non gliela potevano togliere.
Il 2 agosto del 1942, Arpad, Elena, Roberto e Clara vengono arrestati, all'alba, dalla Gestapo. Pochi giorni dopo, giungono nel campo di transito di Westerbork. Venerdì 2 ottobre 1942 la famiglia Weisz viene messa su un treno con destinazione Auschwitz. Quel treno fa una prima fermata a Cosel, Polonia. È la destinazione di Arpad. È uno sportivo, è forte fisicamente, il suo destino è nei campi di lavoro dell’Alta Slesia. Il viaggio di Elena, Roberto e Clara continua. Il 7 ottobre del 1942 Elena, Roberto e Clara appena giunti ad Auschwitz, vengono destinati alla fila sbagliata. Troveranno la morte nelle camere a gas. Roberto aveva 12 anni, Clara appena 8.
Arpad Wiesz morirà ad Auschwitz il 31 gennaio del 1944.
Questa è la storia di Arpad Weisz. È la storia di un calciatore. È la storia di un allenatore. È la storia di un ebreo. È la storia di un uomo. È una delle un milione e mezzo di storie che vivranno per sempre nella nostra memoria e nel monito di Auschwitz.
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