di Marie Moïse - Jacobin Italia.

L’amore non è una libera scelta. Non per chi, in questo mondo, è costretta ad amare per sopravvivere. L’amore di cui parlo, prima che un sentimento, corrisponde al ventaglio delle sue espressioni concrete e socialmente comprese come tali, dai gesti di attenzione e preoccupazione, a quelli di ascolto e sostegno, fino al soddisfacimento delle altrui necessità e difficoltà, fisiche ed emotive. In una parola: la cura.

O meglio, lavoro di cura, perché al di là dell’idea (ideologia?) ampiamente diffusa che la propensione alla cura degli altri risieda in una presunta natura femminile, comporta anche fatica, sforzo e logoramento, tanto fisico quanto psicologico: alzarsi in piena notte, tutte le notti, perché il bambino si è svegliato e ha fame, lavare i sanitari, stirare la biancheria, far trovare la cena pronta a tavola la sera, imboccare e cambiare l’anziano non più autosufficiente. O ancora, ascoltare a lungo il racconto di una giornata frustrante di lavoro, accettare la richiesta di un rapporto sessuale solo per fare (letteralmente) piacere, sorridere al datore di lavoro, al collega, ai clienti a lavoro, per mostrarsi accoglienti e accondiscendenti. Lavoro quindi, ma nelle forme qui analizzate, un lavoro strutturalmente non retribuito. Il significante “donna” marchia il corpo che non deve mostrarsi al lavoro, ma perennemente a disposizione dell’altro per amore e indole al sacrificio. Il corpo disponibile è quello che si può sempre utilizzare, toccare, penetrare. È il corpo che rigenerando l’altro, rigenera costantemente le condizioni sociali di un sistema di sfruttamento.

Un filo rosso connette la cura alla violenza sulle donne: la legittimità di sfruttare i corpi sempre disponibili diventa legittimità di piegarli con la forza, e persino di annientarli, quando osano dire di no, quando rifiutano di “amare”.

Non è per niente facile dire di no, non solo perché si è costrette sin da bambine a diventare donne, ma perchè siamo su un terreno strutturalmente asimmetrico. In un paese in cui la disoccupazione femminile è al 50%, come si fa a dire di no a una relazione da cui dipende la possibilità di un’abitazione, l’accesso alle spese sanitarie, all’istruzione, in breve la propria sopravvivenza economica e quella di altre persone sotto la propria responsabilità? Come dire di no, quando a esigere il gesto di cura è la persona da cui dipende il posto di lavoro, la cittadinanza, il permesso di soggiorno o persino la propria integrità fisica?

In un sistema basato sulla costrizione all’amore così inteso, non dire di no, non è un errore, non è una colpa, non è da deboli: è una tattica di sopravvivenza.

Sei più bella quando sorridi

Vi è mai capitato di parlare con qualcuno e di sentirvi all’improvviso fare un commento invasivo o denigrante sul vostro aspetto, o magari sulla vostra attività sessuale? Prese di sorpresa, probabilmente imbarazzate e a disagio, vi è mai capitato di aver risposto con un semplice sorriso? In un misto di nervosismo, impotenza e pena per quel commento, eppure, avete sorriso. Guardando la scena da fuori, o dal punto di vista del molestatore, quel sorriso sembra la risposta obbediente a un’implicita ingiunzione – anche un sorriso è un gesto di cura – la conferma di una condizione di subalternità.

Ma invertendo la prospettiva, provando a guardare al mondo da dentro quel corpo oggettivato, tra la molestia e il sorriso si trova un soggetto che in relazione alla propria capacità di agire soppesa l’espressione più conveniente, per assicurarsi le precondizoni materiali della propria esistenza, per non compromettere la propria integrità. Guai a concludere che non aver detto no significa un sì, ovvero essere responsabili della violenza vissuta. Nelle parole dell’antropologa femminista Nicole-Claude Mathieu «Cedere non significa acconsentire». Non è una questione di solidità morale, di intelligenza o di capacità fisica, ma di rapporti di forza. E quindi delle risorse effettive di cui si dispone per poter sbilanciare dalla propria parte l’asimmetria di potere.

Se la disposizione “femminile” alla cura degli altri è il prodotto storico di una storia di dominazione, il soggetto della cura si forma dentro e attraverso la violenza. Questo significa, nel pensiero della filosofa francese Elsa Dorlin, che la disposizione al gesto d’amore, all’attenzione empatica fino all’abnegazione di sé, dissimula una condizione di «inquietudine radicale» che plasma la cura come lavoro costante per minimizzare o disinnescare ulteriore violenza, ovvero per difendersi. Non si tratta allora di prendersi cura degli altri (solo) per sostegno o conforto, ma «di prendersi cura degli altri per anticipare ciò che vogliono e possono fare di noi – ciò che potenzialmente ci devalorizza, affatica, insulta, isola, ferisce, inquieta, nega, terrorizza, derealizza» (E. Dorlin, Se défendre. Une philosophie de la violence, 2017, p.175).

Impariamo a conoscere gli altri, i loro bisogni, per proteggere noi stesse, per prenderci cura di noi, in questa forma ambivalente, sporca, in questo «dirty care» (p.177). La cura come tattica di sopravvivenza, in un mondo strutturato sulla violenza di genere, è una pratica vitale di autodifesa. In assenza di altre risorse, allora, anche davanti a una molestia verbale, la miglior risposta può essere un sorriso. Non come segno di pace, ma il suo contrario. Quel gesto di cura è solo il modo più efficace per non esporsi a ulteriore vulnerabilità e mantenersi illese, mentre occorre posticipare il momento in cui, messe insieme le forze, sarà finalmente possibile entrare in conflitto.

Insieme a te non ci sto più

#Wetoogether: quel che è successo a te è successo anche a me, ma ora possiamo affrontarlo noi, insieme. Con questo messaggio scendeva in piazza il movimento femminista di Non Una Di Meno un anno fa. Per entrare in conflitto occorre partire proprio dalle risorse fino a quel momento spese per la propria sopravvivenza. La questione è rivolgere quel lavoro di cura verso una nuova prospettiva, che riesca a guardare oltre alla sopravvivenza e anelare a un pieno vivere. Quando la cura viene rivolta non più alla fonte di violenza o sfruttamento, ma verso le altre vite inquiete e in apprensione, la forza subalterna si accumula e l’asimmetria di potere inizia a vacillare.

Quando tutto quel sapere accumulato sotto minaccia sull’ascolto, l’accoglienza dell’altro, la risoluzione dei problemi e la comprensione dei bisogni, gira le spalle alla relazione violenta e si fa gesto reciproco tra chi detiene quel sapere, la cura si fa pratica di soggettivazione politica. La relazione di cura orientata alla dimensione collettiva in lotta permette di difendere e alimentare questo stesso processo, riuscendo a guardare anche al di là del piano tattico, e mettendo solide basi al divenire di un soggetto, perché soggetto della propria strategia di lotta.

A un anno da quel #wetoogether, il movimento globale contro la violenza di genere torna in piazza il 24 novembre e annuncia il percorso verso il prossimo sciopero femminista internazionale per l’8 marzo 2019.

Pensare la cura come pratica di soggettivazione sottrae la cura stessa alla riproduzione delle relazioni di dominazione, alla negatività di una sopravvivenza che si contrappone all’affermazione di sé, e consegna la cura alla riproduzione delle relazioni vitali, quelle che permettono di fare della vita un orizzonte – mentre diviene già esperienza – di liberazione. È lì che l’amore può cessare di essere una scelta di necessità o una costrizione sotto minaccia e farsi cura di chi insorge per chi insorge, diventare l’amore delle insorte.

*Marie Moïse, attivista, è dottoranda in filosofia politica all’Università di Padova e Tolosa II, scrive di razzismo e colonialismo da una prospettiva femminista, con Alberto Prunetti ha tradotto Donne, razza e classe di Angela Davis (Alegre, 2018).

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